Questa puntata racconta chi era Actarus, da dove veniva, cosa significava per una generazione intera quel suo sguardo malinconico, sempre un po’ rivolto altrove. Parliamo di identità, solitudine, e riscatto, ma anche di come, senza saperlo, Goldrake ci abbia insegnato che essere eroi non vuol dire vincere, ma continuare a lottare anche quando la tua stella è già caduta.
C’è un momento, nella vita di ogni bambino degli anni ’70, in cui il mondo smette di essere piccolo.
Per molti di noi, quel momento ebbe un nome preciso: Goldrake.
In questa prima puntata riviviamo il giorno in cui il principe Actarus e il suo robot volante atterrarono nei nostri salotti in bianco e nero, portando con sé la malinconia del futuro, la nostalgia delle stelle e la sensazione che anche da un paese come Sibari si potesse guardare l’universo.
Tra risate, ricordi e riflessioni, il racconto diventa un viaggio nel tempo — quando bastava una televisione, un ghiacciolo e un robot gigante per credere che il bene potesse ancora vincere.
C’è un punto in cui le città smettono di essere luoghi e diventano ricordi.
Sibari è una di quelle.
Una città nata dal sogno di un uomo e finita nel silenzio del mare.
Dicono che le sue strade brillassero come specchi, e che il profumo dei banchetti si sentisse fino alle colline.
Ma il tempo, come l’acqua, non dimentica nulla.
Scava, consuma, restituisce.
E così, tra le voci del vento e del fiume Crati, si sente ancora qualcosa.
Un’eco di pietra, di desiderio, di colpa.
Il canto di una città che fu.
E che, forse, continua a vivere in chi sa ancora ascoltare.
“Il fiume che cantò la fine” racconta il giorno in cui Sibari, la città più splendida della Magna Grecia, scomparve per sempre sotto le acque del Crati.
Non fu una battaglia, ma un rito del destino: una civiltà di lusso e di bellezza travolta da se stessa, che trovò nella propria caduta la sua immortalità.
Attraverso il linguaggio poetico e magico di questo episodio, le voci dei sibariti si fanno eco nel tempo, e il fiume diventa voce, memoria, canto.
Perché le città non muoiono davvero.Restano dove qualcuno continua a raccontarle.
C’è un momento, nella storia di ogni città, in cui il canto si incrina.
Sibari, che era stata luce, danza e abbondanza, comincia a sentire il peso del proprio splendore.
Le strade ancora profumano di vino e di pane caldo, i cavalli danzano ancora nelle arene, le musiche attraversano le case. Ma qualcosa si spezza: l’eccesso diventa fragilità.
E intanto, all’orizzonte, si alza l’ombra di Kroton.
La città sorella, la città nemica.
Gli occhi dei crotoniati guardano Sibari con invidia, con desiderio, con odio.
È l’inizio del declino.
Non si vede ancora il fuoco, non si odono ancora le spade. Ma il vento, quello sì, già porta con sé il presagio della rovina.
Sibari continua a sorridere, ma il tempo ha deciso: nulla potrà fermare la sua caduta.”
Sibari è ancora la città del sogno: le sue strade risuonano di canti, i palazzi brillano di mosaici e il fiume la accarezza come una madre innamorata. Ma proprio in quel tempo di splendore, nasce l’ombra.
La ricchezza, l’eleganza, l’arte del vivere diventano fragranza che si diffonde troppo lontano. Gli stranieri cominciano a guardare Sibari non più come un modello, ma come una sfida. La città è desiderata, invidiata, odiata.
Ogni banchetto, ogni danza, ogni cavallo ammaestrato con cura, diventa prova della sua superbia agli occhi del mondo esterno.È il momento in cui la bellezza comincia a trasformarsi in colpa.
E la natura stessa sembra avvertirlo: il Crati e il Sybaris scorrono con un mormorio diverso, quasi un presagio.Il tempo resta sospeso, come se la città fosse sul bordo di una lama. Ancora luminosa, ma fragile.
Questa è la stagione in cui Sibari non sa di essere già leggenda, e che ogni leggenda porta con sé la sua fine.
Il tempo della città corre come un cavallo lanciato: banchetti, danze, mercati pieni di stoffe e spezie. Ma sotto la superficie del lusso, si avverte un cambiamento. Non è ancora rovina, è tensione sospesa.
Gli ambasciatori delle città vicine arrivano sorridenti, ma i loro occhi brillano di calcoli. I racconti degli stranieri parlano di Sibari come di un luogo miracoloso, e più la voce della sua ricchezza corre lontano, più cresce il rancore.
Nel frattempo, la natura diventa inquieta. Il Crati non canta più come un tempo: le sue acque scorrono lente, torbide, e portano con sé un presagio. I campi di grano ondeggiano non più soltanto al vento, ma come se fossero attraversati da un tremito antico. Gli uccelli migratori disegnano traiettorie confuse sopra le mura.
Is, nei racconti dei più anziani, appare ormai come un profeta dimenticato. Alcuni giurano di averlo visto camminare sulle rive al tramonto, con lo sguardo rivolto al mare, come in ascolto di una voce che non appartiene agli uomini.
E così, tra il fragore della festa e il silenzio dei presagi, Sibari vive il suo crepuscolo inconsapevole: un luogo che sembra eterno, eppure già segnato dal tempo che verrà.
“C’è un momento, nella storia di ogni città, in cui la bellezza sembra aver raggiunto il suo culmine.
A Sibari quel momento fu un incanto senza crepe: il sole accarezzava le colonne dei templi, i fiumi scorrevano come vene d’oro intorno alla città, e la vita quotidiana era un rituale di eleganza e leggerezza.
Eppure, dietro quell’armonia apparente, qualcosa cominciava a muoversi.
Gli sguardi dei popoli vicini si facevano più pesanti, le voci si caricavano di invidia.
Perché a volte, la colpa più grande di un popolo è semplicemente la sua felicità.
In questo episodio vi racconto il tempo sospeso di Sibari: un canto di luce che già nascondeva, nelle sue pieghe, l’ombra del destino.”
Sibari cresce, ma non solo nelle case e nelle strade.
Cresce nei cuori degli uomini.
Gli Achei scoprono che vivere qui è diverso da qualunque altro luogo abbiano conosciuto: non c’è solo abbondanza, c’è armonia. I fiumi dettano i ritmi della vita, la terra non si oppone, il cielo sembra benedire ogni gesto.
Gli uomini non lavorano soltanto per sopravvivere: imparano a godere del frutto del loro lavoro. I banchetti diventano più frequenti, le danze più sfrenate, le notti più lunghe. La musica non è più un lusso: è un respiro quotidiano.
Is cammina tra di loro e vede con chiarezza ciò che sta accadendo: Sibari non è destinata a essere solo una città, ma uno stile di vita. Un modo di abitare il mondo.
È qui che nasce la fama che renderà Sibari unica: il mito di una comunità dove la bellezza, la gioia e la grazia non sono eccezioni, ma la regola.
La città, ancora giovane, già promette leggenda.
Il tempo comincia a scorrere in modo diverso.
Le tende diventano capanne, le capanne presto si trasformano in case. Non è più un accampamento, è una comunità.
Gli Achei scoprono che la pianura è un dono inesauribile: il grano cresce alto, i fiumi portano pesci a centinaia, gli ulivi si piegano sotto il peso dei frutti. Ogni giorno sembra una festa naturale, un invito alla vita.
Is osserva tutto con occhi distanti. Per gli altri è lavoro, conquista, sopravvivenza. Per lui, invece, è come se la città già esistesse dentro un sogno più grande, e loro stessero solo dando corpo a qualcosa che da sempre li attendeva.
La comunità si stringe attorno a rituali nuovi: banchetti, canti, danze che nascono spontanee. È il primo assaggio di quella che diventerà la leggenda di Sibari: un luogo dove il piacere e la bellezza non sono peccato, ma destino.
E così, mattone dopo mattone invisibile, Sibari inizia davvero a prendere forma. Non solo nelle mani degli uomini, ma nell’immaginazione che già la vede luminosa, elegante, infinita.
In questo episodio attraversiamo il confine tra mito e storia, seguendo gli uomini che – lasciandosi alle spalle le coste dell’Acaia – approdarono in una terra ancora muta, ma già gravida di futuro. Non solo un viaggio: una scelta, una ferita aperta nel tempo. Racconto l’istante in cui tutto ebbe inizio. Quando il vento cambiò direzione. Quando il mare smise di essere frontiera e divenne promessa. Quando il mondo, davvero, fu di nuovo giovane.
In questa prima puntata, iniziamo un viaggio che non è solo storico, ma profondamente personale, emotivo e simbolico. Il podcast nasce dal desiderio di riportare alla luce la memoria di Sibari, città magnifica e tragica della Magna Grecia, ormai sepolta sotto secoli di silenzio e dimenticanza.
Perché proprio Sibari?
Non è solo una città perduta. È un simbolo. Di bellezza estrema e di decadenza improvvisa. Di gloria e di rovina. Di sogni che si fanno pietra, e di pietre che si fanno polvere.
Sin da giovane, sono rimasto affascinato dalle storie su questa città opulenta, raffinata, mitica. Una città che osò essere felice, ed ebbe il coraggio di inseguire il piacere, la cultura e la libertà. Ma pagò il prezzo più alto: la distruzione.
In un mondo che tende a dimenticare la poesia del passato, il podcast vuole essere un atto di resistenza della memoria. Un canto che si oppone al rumore del presente. Una cronaca poetica che ricuce il filo tra mito, storia e destino.
Sibari non è solo una città morta. È un'idea.Un monito.Un’eco.E da oggi, una voce.