Bentornato alla settima puntata della dodicesima stagione di Viaggio nella Luna, una trasmissione radiofonica di cinema, e incidentalmente anche un podcast, che vi terrà divanamente incollati (since 2013). E fin qui le certezze, direte voi, fedeli radio-espettatori.
Ma questa puntata si caratterizza per la cocente delusione patita da Marco, fervente ammiratore di Pedro Almodóvar, che si ritrova a parlare del lavoro del regista spagnolo in termini non così entusiastici come vorrebbe. Ma andiamo per ordine.
La Stanza Accanto, l’ultimo lavoro di Pedro Almodóvar, è arrivato nelle sale come un evento cinematografico, forte di un cast stellare e della firma di un regista che ha fatto la storia del cinema spagnolo. Tilda Swinton e Julianne Moore, due giganti della recitazione, si confrontano in un dramma intimo e intenso, ma… e qui arriva il “ma” – la stanza accanto, a mio avviso, si rivela una stanza piuttosto vuota. Un involucro elegante e raffinato, certo, ma privo di quella sostanza, di quella complessità narrativa che ci si aspetterebbe da un regista del calibro di Almodóvar.
Il film racconta la storia di Martha e Ingrid, due amiche di vecchia data che si ritrovano dopo anni di lontananza. Martha, interpretata da una straordinaria Tilda Swinton, è una reporter di guerra segnata da un profondo dolore, mentre Ingrid, a cui Julianne Moore dona la sua consueta intensità, è una scrittrice di successo che ha trovato rifugio in una tranquilla casa di campagna. Il loro incontro riapre vecchie ferite, fa riaffiorare ricordi dolorosi, mette a nudo le fragilità di due donne che hanno scelto strade diverse per affrontare il dolore e la perdita. Fin qui, tutto bene. Il problema, a mio avviso, è che Almodóvar si concentra quasi esclusivamente sulle performance delle due attrici, costruendo un film che sembra un palcoscenico teatrale su cui Swinton e Moore possono dare sfoggio del loro immenso talento. E lo fanno magistralmente, intendiamoci. I loro sguardi, i loro silenzi, le loro esplosioni di rabbia e dolore sono di una potenza espressiva straordinaria. Ma intorno a loro? Cosa resta?
La sceneggiatura, ispirata al romanzo “Attraverso la vita” di Sigrid Nunez, appare fragile, quasi scheletrica. I dialoghi, pur ben scritti, non riescono a scavare in profondità nella psicologia dei personaggi, lasciandoci con una sensazione di incompletezza. Le tematiche affrontate – il dolore, la memoria, l’amicizia, la maternità – sono appena accennate, come se Almodóvar avesse paura di sporcarsi le mani con le emozioni più crude e viscerali. Manca quella complessità, quella stratificazione di significati che ha reso grandi i suoi film del passato. Persino la regia, solitamente ricca di guizzi e invenzioni visive, appare qui più contenuta, quasi anonima. Almodóvar sembra volersi mettere da parte, lasciando che siano le due attrici a “fare il film”. E loro lo fanno, con una bravura che lascia senza fiato. Ma alla fine, ci resta la sensazione di aver assistito a un saggio di recitazione, a una dimostrazione di virtuosismo attoriale fine a se stessa. Un film che, pur con tutti i suoi pregi, non riesce a emozionare e coinvolgere fino in fondo.
Prendiamo ad esempio la scena in cui Martha e Ingrid discutono del passato. I dialoghi sono ben scritti, certo, ma manca quella tensione emotiva, quella vera conflittualità che ci si aspetterebbe da due donne con un passato così complesso. Sembra quasi che Almodóvar eviti di farle scontrare veramente, preferendo mantenere un tono distaccato e cerebrale.
Anche la fotografia, solitamente un elemento forte nei film di Almodóvar, qui appare piuttosto anonima. Mancano quei colori accesi, quelle inquadrature barocche che hanno caratterizzato la sua estetica.
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