IO C'ERO...6° CAPITOLO - 1943
Tutto quello che mi va di raccontare dal 1938 ad oggi
6° capitolo - 1943. BOMBARDAMENTI
Ora i ricordi cominciano ad affollarsi. Siamo in piena II guerra mondiale e i continui allarmi aerei, con le sirene spiegate, creano momenti di tensione e di panico.
A me, inconsapevole di quanto stesse accadendo, il suono delle sirene destava una bizzarra emozione: un misto di terrore, nel guardare l’espressione dei miei genitori, e di gioia perché sapevo che nel ricovero, nel quale ci saremmo rifugiati, che si trovava sotto il mio palazzo, avrei trovato altri bambini con i quali poter giocare e chiacchierare.
Beata incoscienza.
Abitiamo, in via Etruria, davanti alla Caserma dov’è ubicata la Direzione di Artiglieria e quindi siamo veramente a rischio; tuttavia, escluso il crollo di un capannone, che si vede proprio dalle mie finestre, sotto il quale sono ricoverati dei cannoni - crollo non dovuto ad una bomba, ma all’errata manovra di un camion che prende in pieno uno dei piloni portanti - per fortuna non accade nulla di pericoloso.
Proprio nel periodo dei bombardamenti su Roma un giorno si è visto, sempre dalla mia finestra, il fumo provocato dalle bombe sganciate nel quartiere di San Paolo, perché attraverso la caserma e la ferrovia si apre uno scorcio che mi permette di sconfinare, con lo sguardo, fino all’Eur. Quel giorno mio padre non è in casa e mia madre sa che doveva andare proprio in via Ostiense. Ci sono dei momenti di panico. Ma tutto finisce bene perché papà, all’ora del bombardamento, aveva già lasciato la zona.
Con un anno di anticipo sui tempi canonici i miei decidono di farmi iniziare gli studi. Pensano però che possa essere pericoloso mandarmi a scuola. Così, mi affidano ad una maestra in pensione che abita due piani sopra di me, la signora Selan.
Vado da lei tutti i giorni per tre ore di lezioni e questo per le prime tre classi elementari. Ogni anno però devo sostenere un esame di stato perché mi venga riconosciuto l’anno scolastico. Gli esami non finiscono mai, ma per me forse sono cominciati un po’ troppo presto.
Comunque questa maestra è un po’ troppo accondiscendente. Basta che le dica che sono andato a passeggiare all’aria aperta, che mi dispensa dal fare i compiti. Per me è una pacchia, ma poi fatico ogni volta a riguadagnare il terreno perduto.
È fissata per la calligrafia, mi fa scrivere in continuazione perché vuole che io migliori la mia scrittura e per stimolarmi mi fa vedere ripetutamente i vecchi quaderni del figlio, che sono con una grafìa perfetta. Lo odio! Però mi è rimasto, da questo insegnamento, il piacere di scrivere con chiarezza, accorgendomi che le cose scritte bene sembra che abbiano dei contenuti migliori.
L’estetica dello spettacolo, quando la forma è anche sostanza.
Continua…
IO C'ERO...5° CAPITOLO - 1942
Tutto quello che mi va di raccontare dal 1938 ad oggi
5° capitolo - 1942
Un giorno un signore viene a casa per consegnare non so cosa, mentre io sto giocando per conto mio nell’ingresso. Mi chiede quanti anni ho.
Io rispondo: QUATTRO
Questo momento, in sé insignificante, per me è invece importante perché è il momento in cui nella mia memoria cominciano ad imprimersi i primi ricordi.
Si accendono dei flash sul primo viaggio della mia vita: in estate i miei decidono di organizzare questo viaggio nel Nord Italia, in treno. Ho un chiaro ricordo di una gita in vaporetto sul Lago di Garda, mentre guardo dalla plancia la sala macchine attraverso un portellone semiaperto, incuriosito dal rumore e da tutti quei pistoncini che si muovono in continuazione. E anche di alcuni giorni trascorsi in montagna dove dormivamo in un rifugio. Non avevo idea in che posto fossimo, ma poi ho saputo che eravamo stati a Passo Rolle e a San Martino di Castrozza. Ho delle immagini di Padova, della Chiesa di S. Antonio e della reliquia della mandibola del Santo, custodita lì su un altare. Mi fece una strana impressione. Poi, pensate, quella stessa reliquia - durante un pellegrinaggio che la portò in adorazione in giro per tutta l’Italia e, grazie a uno strano magheggio di mia madre, che per impietosire il parroco della nostra chiesa si diede malata, esercitando tutta la sua incomparabile capacità di persuasione, - finì per arrivare a casa nostra, nel nostro soggiorno, destando l’ammirazione e suscitando l’ossequio di tutto il vicinato.
Ricordo infine che la nostra vacanza, prima di tornare a Roma, si concluse a Venezia.
Ed è lì che sorse un incubo che mi sono portato dietro per tanto tempo.
Infatti per molti anni ho avuto il terrore di tornare in piazza San Marco, perché ero spaventato dall’idea di rivedere la facciata della Basilica, come se qualcosa mi avesse turbato, ma senza capire cosa potesse essermi successo. Ne parlavo spesso con mio padre, ma non capiva nemmeno lui da cosa derivasse quel mio stato d’animo.
Solo dopo diversi anni, tornando più volte a Venezia e chiedendo ad alcuni parenti veneziani di aiutarmi a ricordare, ho potuto scoprire cosa avesse suscitato in me tanto terrore e ho finalmente realizzato cosa era accaduto nel mio subconscio.
Quando, nel 1942, c’ero stato, eravamo nel pieno della II Guerra Mondiale e le cupole d’oro di San Marco erano state coperte con dei teli, per non attirare le attenzioni delle forze aeree nemiche. Io nemmeno sapevo dell’esistenza delle cupole, ma evidentemente questa curiosa copertura, che avrò intravisto con la coda dell’occhio, senza rendermene conto, si è insinuata nei miei ricordi confusi, creandomi un alone di mistero e quindi uno stato d’ansia.
Ora, ogni volta che torno a Venezia, riesco sì a godere l’insieme della bellezza di questa magica piazza, ma qualche volta riemerge quella strana sensazione che ho tenuto dentro per tanti anni.
Continua…
IO C'ERO...4° CAPITOLO - 1941
I MIEI FRATELLI
Nulla di particolare da essere ricordato, se non il fatto che inizio ad essere più consapevole di avere un fratello ed una sorella. Leonardo che ha dieci anni e Assunta Maria, o meglio Tunni, come ha deciso lei di farsi chiamare, che ne ha dodici. Loro sono troppo grandi per me o forse sono troppo piccolo io per loro e quasi non mi considerano, almeno è questa la mia sensazione.
Hanno i loro amici coetanei ed io per loro sono solo un rompiscatole.
Mia sorella è molto carina ed esuberante, ma soprattutto è un’artista o, come si dice, ha le “mani d’oro”. Dipinge, fa dei lavori a inchiostro di china, sotto la guida di mio padre, sa tagliare, cucire, si fa i vestiti da sola e ora sta anche imparando a lavorare la terracotta.
Poi per tutta la vita ha fatto l’artista, a volte… incompresa, sbizzarrendosi in ogni forma d’arte. Comunque è molto brava e ancora oggi a casa ho tanti suoi quadri. S’infuria quando io metto le mani sulle sue cose, perché è molto ordinata e guai a spostarle qualcosa.
Mio fratello invece è più tranquillo, non molto espansivo; va giù in cortile a giocare con i suoi amici e insomma si fa i fatti suoi. Con me è di poca compagnia. Ma è sempre stato pacato in tutta la sua vita e tuttavia, senza essercelo mai detto, ci siamo sempre voluti molto bene.
Fa parte della famiglia anche un cagnolino, che ha solo qualche mese più di me, sempre allegro e scodinzolante. È un volpino, candido e pelosissimo, che si chiama Lulù, un nome da cagnetta, invece è maschio. Non che mi piacciano tanto i volpini, ma questo ho trovato…
È la passione di mia madre. Lei lo chiama Tartufello, perché sostiene che il suo naso sembra un tartufo. Io non sapevo nemmeno cosa fosse un tartufo.
Mi diverto ad aiutare mia madre a fargli il bagno, anche se a Lulù non piace per niente; mi diverte perché quando è bagnato diventa magro magro e poi quando lo asciughiamo col phon, pian piano il suo pelo si gonfia e diventa come un grande batuffolo di ovatta.
Porto in me l’immagine di mia madre, eternamente vestita di nero, seduta in poltrona con Lulù in braccio, bianchissimo, sempre proteso in avanti col suo musetto a controllare ogni movimento e pronto ad abbaiare disperatamente appena qualcuno si azzarda a suonare il campanello di casa.
Insomma anche lui è un grande rompiscatole, ma anche un ottimo compagno di giochi. Ha vissuto per 17 anni e mezzo ed è stato parte importante della mia vita.
Poi ho uno zio, un fratello di mamma, che non abita con noi, ma è come se fosse così, perché
lo vedo sempre girare per casa, zio Ciccillo.
Infine c’è una signora che vive con noi, Pierina. Si occupa principalmente di me, ma in realtà è una sorta di tuttofare; mia madre con la sua mole, pur essendo molto attiva e sorprendentemente agile, non gliela farebbe a tirare avanti la casa da sola, con tre figli.
Pierina ha quasi quarant’anni ed ha un bambino della mia età che abita con la zia. Tonino, questo è il suo nome, ogni tanto viene con la zia a trovare la sua mamma e giochiamo insieme.
Pierina è sempre alla ricerca di un fidanzato che la voglia sposare e che possa dare un cognome a suo figlio che, non so com’è, assomiglia tanto a mio zio Ciccillo.
Continua…
I MIEI GENITORI
Ormai cammino spedito, comincio addirittura a formulare qualche frase di senso più o meno compiuto e cresco a vista d’occhio, naturalmente per chi ci vede benissimo. Sono un po’ schizzinoso nel mangiare e questo, purtroppo, me lo porterò avanti per tutta la vita.
Neanche di questo anno ho molto da raccontare, per cui approfitto per farvi conoscere i miei genitori.
Mio padre si chiama Alberto, veneziano, figlio unico, ma forse no, ne riparleremo nel 2019, è stato un apprezzato poeta futurista, pubblicato da Marinetti. È laureato in ingegneria chimica, ma, esclusi i primi due anni in cui ha lavorato alla Richard Ginori come chimico, non ha poi mai più praticato la sua vera professione.
E’ piccolino di statura e dicono che io gli somigli tanto, ma non solo per l’altezza.
Dopo aver lavorato alla Transadriatica e successivamente all’ARAR, di cui vi parlerò a tempo debito, è stato dirigente del Poligrafico dello Stato, fino all’età della pensione.
Ha l’hobby della montagna e ogni anno in agosto sparisce per un paio di settimane. Da pensionato si è dedicato alla Biblioteca del Club Alpino Italiano, che oggi porta il suo nome, ed è stato presidente del CAI fino ai suoi ultimi giorni.
Mia madre, Matilde, invece è pugliese di San Severo, casalinga, cuoca straordinaria, orecchiette e cavatelli a piovere, ma aveva sempre sognato di fare la cantante lirica, in realtà senza mai provarci seriamente. Ha una bella voce da soprano, squillante, con una risata contagiosa personalissima. Portarla a teatro a vedere una commedia brillante è gratificante per la compagnia: con le sue risate, assicura il successo dello spettacolo. Tutti ridono appresso a lei.
Con me, la sua bella voce la usa solamente per sgridarmi quando ne combino qualcuna.
Mamma soffre di una disfunzione alla ghiandola ipofisaria, per cui è obesa.
Ha trascorso la sua vita ad impegnarsi in diete dimagranti. Era sotto cura di due luminari della medicina di quei tempi, il prof. Nicola Pende e il prof. Cesare Frugoni, ma non riusciva a perdere un etto di peso, nemmeno digiunando. Il prof. Frugoni, fra i tanti tentativi, le propone di provare a portare avanti una nuova gravidanza. Lei lo fa, naturalmente con la partecipazione straordinaria di mio padre, ed io sono il risultato del suo esperimento. Neanche questo serve a nulla.
Si diverte a raccontarmi, ridendoci sopra, che dopo qualche tempo è tornata dal prof. Frugoni con me in braccio e consegnadomi a lui gli ha detto: “caro professore, adesso questo fagottello se lo tiene lei!”
Continua…
2° capitolo - 1939
NINNA NANNA
Esordisco nell’anno con uno sfogo cutaneo sul viso detto lattime o crosta lattea, che normalmente scompare da solo e che invece su di me persiste più del dovuto. Soltanto dopo che la mia mamma mi porta al mare e mi sottopone ad abluzioni, con l’acqua di mare, comincio a guarire.
Questo lo so perché ho delle foto che lo documentano: in una si vede benissimo la mia faccia piena di piaghe e in un’altra di qualche giorno dopo la faccia tutta liscia.
In estate percorro i miei primi passi e tento di dire “mamma - papà - tata”… per il resto, ogni tanto colpetti di tosse, qualche linea di febbre, un po’ di capricci e quindi null’altro di diverso dagli altri bambini della mia età.
So che mamma per farmi addormentare mi cantava una ninna nanna dolcissima.
Ovviamente me lo ha detto lei quando, più grande, imbastiva i racconti sulla mia infanzia. Ed io allora volevo che me la ricantasse, ogni volta commuovendomi.
“Ninnà, ninnà, ninnà bel bambolino, se dormi cucirò un camiciolino.
Lo cucirò col filo bianco e rosa, e in dono lo darò alla tua sposa…”
Mi piaceva talmente tanto che da grande, da questa ninna nanna, ho attinto l’ispirazione per scrivere… non ve lo dico… per comporre una canzone.
Un’altra cosa che mi diceva mia madre è che ero esageratamente pauroso, se uno mi faceva solo “buh” per gioco, cominciavo a piangere e a nascondermi. Mi racconta che ero soprattutto spaventato nel vedere una cosa grande all’improvviso, specialmente se era una cosa che non faceva parte del mio ambiente abituale. Questo problema me lo sono portato avanti col tempo e negli anni corrispondenti vi racconterò alcuni episodi che testimoniano questa fobia. Le mie paure sono sempre accompagnate da sensazioni particolari che spesso presagiscono un evento. Non ho mai approfondito la questione con uno psicologo, perché ho sempre cercato di analizzarrmi da solo.
Non so se ho fatto bene, ma ne riparleremo.
Un pomeriggio di novembre mi viene all’improvviso un febbrone. A casa papà non c’è e il nostro medico non risponde al telefono. Mamma, è disperata e non sa cosa fare. Istintivamente riempie la vasca da bagno di acqua fredda, mi spoglia e mi immerge completamente. La febbre comincia a calare. Il giorno dopo, quando finalmente viene a visitarmi, il dottore dice a mia madre che era la cosa più giusta che potesse fare ed è come se mi avesse dato la vita per la seconda volta.
E non solo questo. Un altro giorno sto giocando sul pavimento del soggiorno, che chiamavamo “il salotto”, al centro del quale era appeso un lampadario di vetro a foglie larghe. Mamma fa appena in tempo a chiamarmi per la merenda… che il lampadario si stacca dal soffitto e precipita in terra frantumandosi in mille pezzi.
Se sei in buoni rapporti con la fortuna, puoi campare anche cent’anni.
Continua…
1° capitolo. 1938 IN FASCE
Porto lo stesso nome di mio nonno paterno, un brillante avvocato veneziano, l’avv. Edoardo Vianello appunto, e sono nato a Roma il 24 giugno 1938. Per pochissimo sarei potuto nascere anch’io a Venezia, dove i miei genitori avevano vissuto fino a qualche mese prima, ma mio padre, impiegato alla Compagnia Aerea Transadriatica, presso l’aeroporto di Venezia Lido, fu trasferito a Roma proprio all’inizio del ’38.
A Roma abitavamo a San Giovanni e più precisamente nel quartiere Appio, in via Etruria, nella stessa casa nella quale mia madre mi ha messo al mondo, come si usava a quei tempi, e dove ho vissuto i primi 25 anni della mia vita.
Naturalmente non ricordo nulla del mio primo mese di vita se non, a quanto mi dicono, che fui molto precoce al punto che appena nato imparai subito a piangere e ad urlare. Gli altri mesi del 1938 passarono senza che io me ne accorgessi, ma molti giurano che a Natale avevo già compiuto sei mesi.
In una foto, che sta nell’album dei ricordi di famiglia, mi vedo completamente fasciato. Era un’usanza dell’epoca fasciare, nel modo più stretto possibile, i bambini. Il compito di farlo lo aveva mia sorella, in quanto mia madre aveva difficoltà a chinarsi nella culla. Con la fasciatura si evitava che le gambe venissero storte, questo almeno era il pensiero delle mamme, suffragato dai consigli dei pediatri. Guardandomi allo specchio in realtà ho le gambe dritte, però non ho nemmeno la prova contraria.
Quel che è certo è che nella foto, più che un neonato, sembro una piccola mummia.
Non può essere che sommario il racconto di questo primo anno di vita, per mancanza di testimonianze dirette, ma vi assicuro che per i successivi tre o quattro anni lo sarà… ancor di più, perché le prime reminiscenze, che affiorano nel bagaglio dei ricordi, risalgono a quando avevo quattro o cinque anni.
Tutto quello che so dei miei albori ha, come fonte di conoscenza, i racconti della mia mamma.
Non certo quelli di mio padre che era piuttosto chiuso e taciturno; e poi, in quel momento così critico per la situazione politica, con il rischio anche di perdere il lavoro, aveva ben poco tempo per memorizzare piccoli eventi familiari.
Perciò finisce qui il primo capitolo della mia storia. Ma potete esserne sicuri:
continua…
Prefazione
Guardandomi indietro e riandando con la mente ai momenti che hanno toccato i miei sentimenti, che
hanno formato il mio carattere e che hanno determinato le mie scelte, sia quelle che si sono rivelate
giuste che quelle che mi hanno complicato l’esistenza, mi sembra di aver vissuto in una favola, favola,
di cui sono stato il protagonista.
Tutto quello che racconterò è realmente accaduto. Non ho avuto bisogno di romanzare gli
avvenimenti, anche se qualcosa potrà sembrare attinta al mondo delle fantasie. Sono invece spaccati
di vita reali con esperienze personalissime, delle quali sono stato un affidabile testimone, e pensieri
che sono maturati nel momento dello svolgersi dei fatti. Ho investito tutta la mia capacità di
ricordare, in ogni particolare, quello che…mi va di ricordare, e così sono riuscito a ricostruire quei
capitoli della vita che mi è piaciuto vivere.
Mi chiedo se non sia così per ognuno di noi. Se esercitando la capacità selettiva di ricordare solo
quello che ci va, non possiamo tutti guardare alla vita che abbiamo vissuto come ad una storia
accettabile, magari una favola. Almeno vale la pena di provarci. Chissà che seguendo l’ordine dei miei
ricordi, ordinati anno per anno, la mia personale favola non possa incrociarsi con la vostra e invogliare
anche voi ad esercitare la vostra memoria a ricostruire e a rivivere i vostri momenti cruciali,
confrontandoli con la cronaca di vita di una famiglia qualunque, in questo caso: la mia.
L’inizio di ogni favola è fissata convenzionalmente in “C’era un volta…” La mia inizia semplicemente
con “C’ero…”