Il tuo lavoro è un dolce navigare o assomiglia, ogni tanto, a un naufragio? Ci sono giorni in cui la scrivania diventa una zattera, le riunioni sembrano onde che travolgono e le email arrivano come raffiche di vento contrario. Giorni in cui tenere la rotta è difficile, e in cui la tentazione di lasciarsi andare è fortissima. “Speranza” è la parola di chi ha affrontato davvero l’oceano — e di chi, come noi, lo attraversa ogni giorno senza accorgersene. È il racconto di Giorgio Amoretti e dei suoi figli, che decisero di attraversare l’Atlantico a bordo di due automobili galleggianti. È la storia di Alain Bombard, il medico che volle dimostrare che non si muore di fame o di sete, ma di paura e rassegnazione. È il filo invisibile che unisce tutti i naufraghi — reali o metaforici — che hanno scoperto che sopravvivere non è questione di forza, ma di conoscenza, fiducia e tenacia. In questo episodio, la speranza non è un sentimento consolatorio, ma un metodo di sopravvivenza. È la capacità di costruire un domani anche quando tutto sembra perduto, di trasformare lo sconforto in disciplina e la paura in vigilanza. È un atto mentale, prima che emotivo. Una forma di lucidità che permette di restare vivi anche quando l’acqua arriva alla gola. Questo episodio è un manuale di sopravvivenza per naufraghi del lavoro: per chi fatica a restare a galla in organizzazioni che somigliano a oceani, per chi sente di aver perso la rotta ma non la voglia di cercarla. Perché, come scriveva Leopardi, “il naufragar m’è dolce in questo mare”. E a volte, il naufragio non è una sconfitta. È una rivelazione. È la possibilità di scoprire di cosa siamo veramente capaci — e di trovare nel mare della complessità un alleato, non un nemico.
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