In questo episodio di FilosofIndia Pop esploriamo l'idea che la creazione dell'universo sia un gioco: līlā, il 'gioco' divino. Sin dall'epoca vedica, infatti, il pensiero indiano ha sostenuto che dio crei l'universo senza un perché, per puro piacere. Più tardi, sia il Vedānta di Śaṅkara che lo Śivaismo del Kashmir, in linea con la tradizione vedica, sosterranno - pur con significative differenze - che la creazione è un atto spontaneo di autoespressione dell'Assoluto, che non necessita di una motivazione o di una giustificazione.
FilosofIndia Pop è lo spin-off di FilosofIndia. E' uno spazio dove parliamo di filosofia indiana in maniera divulgativa, semplice e narrativa, riflettendo sulle tematiche più note del pensiero indiano antico.
Ci sono domande che sembrano semplici finché non proviamo arispondere. Per esempio: perché possiamo dire che due cosediverse — due fiori, due persone, due suoni — condividono unastessa qualità? Che cosa vuol dire che due oggetti sono “rossi”?O che due parole sono “uguali”? Dietro questa domanda, apparentemente innocente, si nasconde uno dei grandi nodi della filosofia di ogni tempo: il problema degli universali.
In questo episodio di FilosofIndia racconteremo come, tra il V e il VI secolo della nostra era, un pensatore indiano—grammatico,poeta e filosofo—propose una soluzione tanto audace quantoraffinata al problema degli universali. Il suo nome era Bhartṛhari.
In questo episodio di FilososfIndia affrontiamo una domanda che, alla prima impressione, suona accademica, ma che porta con sé conseguenze pratiche profondissime: che cosa intendono, davvero, Sāṃkhya e Yoga quando parlano di realtà, esperienza e liberazione?
Per molti la risposta è semplice e familiare: Sāṃkhya e Yoga descrivono un universo che nasce da una materia primordiale —prakṛti — e da un principio cosciente separato — puruṣa — e il loro sistema sarebbe una sorta di cosmologia antica, una «storia» dell’emergere delle cose.
Mikel Burley, però, nel suo bel libro “Classical Saṃkhya and Yoga. An Indian Metaphysics of Experience” (Routledge 2007) ci invita a cambiare radicalmente prospettiva: e se Sāṃkhya e Yoga fossero, prima di tutto, una metafisica dell’esperienza —un’analisi delle condizioni che rendono possibile l’esperienzastessa — più che una mera descrizione di un mondo là fuori?
Nella scorsa puntata abbiamo visto come il pensiero di Śaṅkara possa dialogare, a distanza di secoli, con la filosofia critica di Kant: entrambi ci hanno mostrato il rapporto tra i limiti della conoscenza e la possibilità di un fondamento.
In questo episodio di FilosofIndia, secondo di due, continuiamo quel viaggio e ci spostiamo nel Novecento con Husserl. Con lui entriamo nel mondo della fenomenologia, dove l’io trascendentale diventa un po’ come un testimone che osserva tutto senza partecipare direttamente – un’idea che fa eco, in modi diversi, al testimone vedāntico.
E non ci fermeremo qui: da Husserl, con la sua coscienza pura e costituente, faremo un passo verso Sartre; con lui l’ego non è più solo testimone interno o pura coscienza, ma si mostra nella sua trascendenza, sempre proiettato fuori di sé verso il mondo e gli altri.
Dal testimone immobile di Śaṅkara, passando per l’io costituente husserliano, fino all’ego trascendente di Sartre… il filo della coscienza continua a dipanarsi.
In questo episodio di FilosofIndia, primo di due, innanzitutto introdurremo una nozione fondante nel pensiero di Śaṅkara e dei suoi successori, la nozione di testimone.
Nella seconda parte dell'episodio faremo una sintetica riflessione sulle modalità con cui Śaṅkara, maggior rappresentante della scuola brahmanica Vedānta e Kant, fondatore del criticismo, affrontano il tema della costituzione dell'esperienza a livello trascendentale.
Kant e Śaṅkara, pur appartenendo a mondi lontani, toccano un punto sorprendentemente simile: dietro la varietà dei pensieri e delle esperienze c’è un principio che le rende possibili.
Questo episodio e il successivo devono la loro ideazione ai capitoli 3 e 6 del bel libro di Bina Gupta, The Disinterested Witness: a Fragment of Advaita Vedānta Phenomenology, Northwestern Univ, 1998
Nel corso dei secoli molti filosofi, sia in Occidente che in India, hanno sostenuto l'inesistenza del mondo esterno, la sua natura puramente mentale, paragonandola all'esperienza del sogno. Ma questa forma classica di idealismo è una posizione difficile da sostenere, perché solleva il problema del cosiddetto “solipsismo”, ovvero il fatto che nessun'altra mente esista oltre alla nostra. In questo episodio di FilosofIndia vorremmo illustrare brevemente il celebre argomento contro il solipsismo enunciato nel VII secolo dopo Cristo dal filosofo buddhista Dharmakīrti. Tale argomento, alcuni secoli dopo (precisamente nell'XI secolo), verrà criticato dal maestro buddhista Ratnakīrti, per sostenere, invece, che non è possibile dimostrare l'esistenza di altre menti oltre alla propria.
In questo episodio di FilosofIndia, esploreremo una delle esperienze meditative più misteriose della tradizione buddhista: la cessazione di nozioni ed esperienza, in sanscrito saṃjñāvedayitanirodha. Per comprendere questa esperienza radicale, dobbiamo partire dalla filosofia della scuola Yogācāra, ovvero: "pratica della meditazione", nota anche come "scuola della sola mente". La riflessione sulla 'cessazione di nozioni ed esperienza' nella scuola Yogācāra solleva problemi universali, come il problema dell’idealismo e del rapporto mente-corpo. Un’interpretazione moderna e affascinante della filosofia Yogācāra è quella che la avvicina al panpsichismo. Il panpsichismo sostiene che la caratteristica fondamentale della realtà sia la coscienza onnipervasiva, o almeno una qualche forma di principio mentale. In questa prospettiva la materia è intrinsecamente psichica, possiede in sé il "germe" della coscienza.
In questo episodio di FilosofIndia proveremo sinteticamente a capire come lo Śivaismo del Kashmir affronta il problema dell'esperienza fenomenica in prima persona all'interno del suo contesto teorico.
Nel 1974 il filosofo della mente Thomas Nagel scrisse un articolo intitolato “Com'è (o cos'è) essere un pipistrello?” Egli voleva porre l'attenzione sul problema della coscienza fenomenica, ovvero sul fatto che l'esperienza soggettiva in prima persona è un evento privato e incomunicabile.
Vedremo come la scuola śivaita del Kashmir, non solo avesse maturato l'idea che Śiva, in quanto soggetto conoscente, possiede un'esperienza fenomenica in prima persona, ma avesse anche descritto tale esperienza in modo affine a quello della filosofia della mente contemporanea.
Questo episodio segue come traccia il capitolo 6 del bel libro di Marco Ferrante, Indian Perspectives on Consciousness, Language and Self. The School of Recognition on Linguistics and Philosophy of Mind, Routledge 2020
In questo episodio di FilosofIndia vorremmo inquadrare la nozione filosofica indiana di svasaṃvedana, che possiamo tradurre con “auto-cognizione”. In sintesi, sva-saṃvedana significa che quando percepisco un oggetto, ad esempio un fiore di loto blu, sono anche consapevole dell'atto cognitivo diretto al loto blu. Questa nozione diviene uno dei temi centrali del lavoro del filosofo buddhista dell'VIII secolo Śāntarakṣita e, nel X-XI secolo, dei filosofi Śivaiti del Kashmir Utpaladeva e Abhinavagupta. Alcuni secoli prima, intorno al IV-V secolo dopo Cristo, il filosofo e grammatico Bhartṛhari, nella sua opera “Della frase e della parola”, aveva proposto un'idea di auto-cognizione che diverrà poi la base per l'interpretazione degli Śivaiti del Kashmir, ma che ha delle importanti analogie anche con l'interpretazione buddhista. Pare quindi che Bhartṛhari abbia ispirato sia la posizione buddhista che la posizione Śivaita kashmira
Nel Tattva-saṃgraha, “Compendio dei princìpi” o “delle verità”, Śāntarakṣita affronta il tema dell’onniscienza con un approccio filosofico e critico, inserendolo nel contesto del dibattito interreligioso e inter-scuola dell’India dell’VIII secolo. L’onniscienza del Buddha viene presentata non solo come un’affermazione religiosa, ma come una tesi razionalmente argomentabile attraverso una logica rigorosa. Śāntarakṣita sostiene che, se esistono mezzi validi di conoscenza (pramāṇa), allora è possibile inferire l’esistenza di un essere che li ha perfezionati in sommo grado: il Buddha. Il suo discepolo Kamalaśīla approfondirà poi questa linea nei commentari. L’onniscienza, in questo quadro, diventa il culmine dell’analisi epistemologica e il fondamento dell’autorità dottrinale del Buddha.
In questo episodio di FilosofIndia, primo di 2, vedremo sinteticamente come l’idea della possibilità dell’onniscienza del Buddha si sia sviluppata a partire dagli strati più antichi del canone pali, e come sia mutata poi all’interno dei testi para-canonici successivi e in ambito abhidharmico, spianando la via alle concezioni di onniscienza adottate nel Mahāyāna, all’interno del quale si situa la riflessione di Śāntarakṣita e del suo allievo Kamalaśīla, vissuti entrambi nell'VIII secolo d. C., ai quali dedicheremo interamente il secondo episodio.
Il concetto di karma è uno dei pilastri della filosofia indiana classica e ha dato origine a profondi dibattiti filosofici sulla natura della causalità e della responsabilità morale. Nelle scuole induiste e buddhiste il karma è visto come la legge di causa ed effetto applicata alle azioni morali: ciò che un individuo fa determina le sue future esperienze. Tuttavia, la questione centrale è se questo processo sia regolato da un principio finalista o meccanicista.
Un’interpretazione finalista del karma implica un ordine morale intrinseco alla realtà, in cui le azioni sono ricompensate o punite secondo una giustizia cosmica. Alcune correnti vedono questa legge come governata da divinità o principi superiori. D’altra parte, un approccio meccanicista considera il karma come una legge impersonale di causa ed effetto, simile a un fenomeno naturale privo di intenzionalità.
In questo episodio di FilosofIndia esploreremo le diverse concezioni del karma di alcune correnti maggiori della filosofia indiana del periodo classico, mettendo in luce le implicazioni metafisiche ed etiche di ciascuna interpretazione
In questo episodio di FilosofIndia vedremo alcune prospettive sul concetto di karma nelle scuole brahmaniche e nel buddhismo, e analizzeremo le diverse interpretazioni del karma, esaminandone le implicazioni dottrinali e le connessioni con la liberazione dal ciclo delle rinascite.
Il concetto di karma occupa un ruolo centrale nelle scuole filosofiche dell’India classica, fungendo da principio regolatore dell’esperienza umana e della cosmologia morale. Derivato dal sanscrito karman, che significa "azione", il termine indica il nesso causale tra azioni e conseguenze, una legge che trascende la dimensione etica per assumere una valenza metafisica. Ma cosa significa davvero karma? È solo una legge di causa ed effetto? Un destino ineluttabile? O qualcosa di più profondo?
Il Nyāya affronta il problema del rapporto tra le parole e le cose con una teoria epistemologica e semiotica sofisticata. Secondo i Nyāya Sūtra, la conoscenza verbale è un mezzo valido di conoscenza, ma solo se basata su un uso corretto delle parole e su un’autorità affidabile.
Qui sorge il problema: le parole rappresentano davvero la realtà o sono solo convenzioni?
In questo episodio di FilosofIndia parleremo brevemente del rapporto tra le parole e le cose secondo la scuola Nyāya, con particolare riferimento al dibattito sui concetti universali, uno dei temi centrali del periodo classico della filosofia indiana. Per il Nyāya, le parole hanno un rapporto non arbitrario con gli oggetti, grazie alla nozione di tātparya (intenzione del parlante) e lakṣaṇā (significazione secondaria). Tuttavia, il significato non è fisso, ma dipende dal contesto e dall'uso. Questo è evidente nell’insegnamento di Vātsyāyana (V sec. d. C.), il cui commento ai Nyāya Sūtra di Gautama (II sec. a, C.) mostra come il linguaggio possa sia rivelare che oscurare la verità. Il problema, quindi, è trovare un equilibrio tra il valore oggettivo delle parole e la loro interpretazione soggettiva.
In questo episodio di FilosofIndia Talks abbiamo avuto il piacere di ospitareGiuseppe Ferraro, al quale abbiamo posto le seguenti domande:
Giuseppe Ferraro si è Laureato in filosofia dell’India presso l’università La Sapienza di Roma, dove è stato allievo di Raniero Gnoli, Corrado Pensa e Raffaele Torella; ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università Federale di Minas Gerais, Belo Horizonte, Brasile, dove attualmente è ricercatore affiliato. È docente di filosofia e storia presso il liceo scientifico italiano parificato “Fondazione Torino” di Belo Horizonte. È Autore di libri e articoli (in inglese, portoghese e italiano) dedicati alla storia del pensiero buddhista indiano e, in particolare, alla filosofia madhyamaka di Nāgārjuna. Nel 2024 ha pubblicato, per Carocci,Il buddhismo indiano. Storia di una tradizione filosofica; nel 2023, per Mimesis,Determinismo e giustizia sociale
https://ufmg.academia.edu/GiuseppeFerraro
In questo episodio di FilosofIndia Talks - che fa da seguito alla seconda parte, e conclude la nostra trattazione - vedremo la risposta di Dharmakīrti , il più influente allievo di Dignāga, vissuto intorno al VII secolo dopo Cristo, alle critiche che Kumārila aveva mosso al suo maestro. Kumārila era probabilmente coetaneo di Dharmakīrti, e aveva presumibilmente conosciuto le posizioni di Dignāga leggendo il suo allievo illustre. Le argomentazioni che Dharmakīrti mette in campo, per difendere la teoria del significato degli epistemologi buddhisti dagli attacchi della scuola Mīmāṃsā, rappresentano un interessantissimo esempio del clima filosofico del periodo classico, in cui le dispute tra scuole buddhiste e brahmaniche generano una impressionante serie di nuovi problemi e soluzioni a problematiche tradizionali, come ad esempio il rapporto tra l'unità e la molteplicità, la natura del linguaggio, l'esistenza o meno di un principio unico di ordine metafisico, la natura della conoscenza, la relazione tra i sensi e l'intelletto, l'esistenza del mondo esterno, e così via.
In questo episodio di FilosofIndia Talks - che fa da seguito alla prima parte - vedremo in sintesi la critica che nel IV secolo dopo Cristo Dignāga, fondatore della corrente buddhista degli epistemologi, aveva mosso alla concezione realista dei concetti universali della scuola Mīmāṃsā, critica che, nel VII secolo dopo Cristo, genererà una ferma risposta di Kumārila, il quale, nella sua opera di commento ai Mīmāṃsā-sūtra di Jaimini (collocabili nel II secolo a. C.), opera fondativa della scuola Mīmāṃsā, riporta la celebre teoria del significato di Dignāga, e poi la critica punto per punto, con l'intento di affermare la propria concezione metafisica del linguaggio contro quella convenzionalista degli epistemologi buddhisti.
Nel terzo ed ultimo episodio vedremo la risposta di Dharmakīrti, il più influente allievo di Dignāga, anch'egli vissuto intorno al VII secolo dopo Cristo, alle critiche che Kumārila aveva mosso al suo maestro.
In questo episodio di FilosofIndia Talks - che funge da introduzione agli episodi successivi su questo tema - introdurremo un dibattito che ricorda la cosiddetta "disputa sugli universali", avvenuta tra i teologi scolastici durante il Medioevo.
La questione, in India, vede schierate da un lato le scuole brahmaniche, e in particolare la scuola Mīmāṃsā, e dall'altro la corrente buddhista degli "epistemologi".
Il loro fondatore, Dignāga aveva criticato la concezione realista degli universali della Mīmāṃsā, la quale aveva risposto per bocca di uno dei suoi maestri più importanti, Kumārila, il quale aveva a sua volta attaccato la concezione negativa degli universali di Dignāga. In difesa del maestro, nel VII secolo d. C., si ergerà la voce di Dharmakīrti, il quale tenterà di smontare le argomentazioni di Kumārila.
In questo episodio di FilosofIndia Talks Simone Perrone ci parlerà del concetto di dhamma così come viene introdotto e definito nei discorsi del Buddha e nella letteratura antica successiva, cercando di definire i significati e le valenze di questo termine complesso e polisemico, in connessione alla sua importanza all'interno della pratica meditativa, non solo nell'antichità ma anche nel presente
Simone Perrone ha conseguito con lode la laurea triennale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Laureando magistrale in Filosofia presso la medesima Università, collabora con diverse riviste filosofiche attraverso contributi aventi a oggetto il buddhismo, in modo particolare quello che si è espresso attraverso la lingua pāli. Gestisce un canale YouTube (http://www.youtube.com/@SimonePerrone) destinato alla divulgazione filosofica, prevalentemente buddhologica.
In questo episodio di FilosofIndia vedremo come il metodo filosofico del Nyāya si sia sviluppato a partire dalla sua teoria degli strumenti di conoscenza, integrata da una teoria del ragionamento chiamata tarka. Gautama ci indirizza a comprendere come l'impiego delle fonti di conoscenza le renda metodi di indagine da integrare con confutazioni razionali. Questo programma è chiamato "nyāya", termine tecnico che indica il metodo filosofico corretto e che, per estensione, ha dato il nome all’omonima scuola filosofica indiana