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Lectio: Atti degli Apostoli
Silvano Fausti
90 episodes
9 months ago
Le lectio degli Atti degli Apostoli tenute da Silvano Fausti e dai suoi confratelli della Comunita di Villapizzone (Milano) il lunedi sera.

L'icona è l'opera "Der Morgen am See" di Sieger Köder
Eventuali ulteriori informazioni possono essere trovate su http://www.schwabenverlag-online.de/sk_vita.php

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Le lectio degli Atti degli Apostoli tenute da Silvano Fausti e dai suoi confratelli della Comunita di Villapizzone (Milano) il lunedi sera.

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Episodes (20/90)
Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 8 giugno 2015
Commento a Atti 28, 25-31

Alle nazioni è stata inviata questa salvezza di Dio

Paolo scrive: “Nella prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito: tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentire tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli” (2Tm 4, 16-18). Solo Luca è rimasto con lui (2Tm 4,11).
Il finale degli Atti non è monco, come a prima vista pare. È anzi la ricapitolazione di tutta l’opera di Luca; fa risuonare in pienezza tutti i temi svolti dall’inizio del racconto del Vangelo sino alla fine degli Atti. Protagonista è sempre la Parola di salvezza che passa ai pagani. Paolo ne è araldo e testimone esemplare.
In questo finale è ripresa la duplice profezia di Simeone sul bambino Gesù, tema fondamentale di Luca. Egli è “la salvezza” di Dio da lui “preparata davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti (= i pagani)”. E proprio questa è la gloria di Israele (Lc 2,29-32). Infatti il seme di Abramo sarà benedizione per tutti, nessuno escluso (Gen 12,3b).
Per questo il bambino sarà “segno di contraddizione”, “rovina” per chi la rifiuta e “risurrezione” per chi l’accoglie. La Parola è spada che divide, perché svela i pensieri dei cuori (Lc 2,34s). Proprio gli esclusi, i pagani, a differenza dei Giudei, l’accoglieranno ( cf At 28, 28).
Ma se il “rifiuto” di una parte d’Israele, come si vede da tutti gli Atti, “ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la riammissione” di chi ha rifiutato “se non una risurrezione dai morti?” (Rm 11,15). Sarà il compimento del disegno di Dio, che ha lasciato tutti rinchiudersi “nella disobbedienza per usare a tutti misericordia” (Rm 11,32; leggi il contesto di tutto il capitolo di Rm 11,25-36).
Lo stesso ministero di Paolo ai gentili è tutto “nella speranza di suscitare la gelosia” dei suoi consanguinei (Rm 11,13s).
La durezza di cuore nei confronti di Dio è antica quanto l’uomo. Già Adamo ascoltò la voce del serpente e fu sordo a quella di Dio. È il male originario, origine di ogni male.
Paolo, come il profeta Isaia, rimprovera la stessa cosa ai suoi ascoltatori che non accolgono la sua parola che viene da Dio.
Questo non è giudizio di condanna, ma estremo tentativo di farsi ascoltare. La denuncia di sordità e cecità è diagnosi necessaria per guarire udito e occhio.
Queste parole sono tutt’altro che un’esclusione d’Israele dalla promessa che si è compiuta in Gesù. Paolo, ovunque è andato, è sempre entrato prima in sinagoga, tra i suoi fratelli e proseliti.
A Roma non ha potuto perché agli arresti domiciliari. Ma si è premurato di convocare subito i Giudei, per organizzare un incontro in casa sua.
Paolo si è già preparato il terreno con la lettera ai Romani, che è servita innanzi tutto a lui e a noi per comprendere il rapporto inscindibile tra Legge e Vangelo, tra promessa e compimento. Paolo confessa: “Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti io stesso essere anàtema, separato dal Cristo, a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene il Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen” (Rm 9,2-5).
Il fatto che la salvezza dei Giudei passi ai pagani è innanzitutto il compimento della promessa fatta ad Abramo: “Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione (…) e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,2s). Questo non significa che i Giudei ne sono esclusi: ne sono anzi i primi beneficiari.
È vero che solo “un resto” ha accolto il Cristo e molti l’hanno rifiutato. Ma l’indurimento di una parte d’Israele è momentaneo: sarà in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato” (Rm 11,25s).
Il fine del disegno di Dio su tutti gli uomini è la loro unione fraterna sotto la benedizione di Abramo, padre di tutti i credenti. Egli è il Giusto per eccellenza, il nuovo Adamo. Infatti “credette nel Signore, che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15,6). Che cos’è l’ingiustizia, radice di ogni altra, se non quella di non credere all’amore del Padre?
Anche gli ascoltatori giudei di Paolo che non accolgono il Cristo, sono già previsti dai Profeti e non bloccano il disegno di Dio né la sua fedeltà alla promesse (At 28,26-27).
Dio per salvarci usa anche le nostre resistenze e il nostro male. La storia di Giuseppe è esemplare. Egli, dopo la morte del padre Giacobbe, dice ai suoi fratelli che temevano la sua vendetta: “Se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gen 50,29).
“Israele non dubita dell’universalità della salvezza. Sa di avere la missione di annunciarla al mondo intero. Glielo ricordano in particolare gli oracoli che riguardavano la vocazione del Servo di Dio: “Ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni” (Is 42,4-6) – “Mio Servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria (…). Ti renderò luce delle nazioni perché la mia salvezza raggiunga le estremità della terra” (Is 49,2-6). Si tratta di due testi chiave che la redazione lucana ha già applicato più volte a Paolo (At 13,47; 22,15; 26,17-18).
Anche i giudei di Roma sono divisi di fronte al messaggio del testimone. Siccome Israele può svolgere la sua missione soltanto se ritrova la sua unità, bisogna che Paolo – e quelli che sono con lui o che gli succederanno – si rivolgano alle nazioni in nome dello stesso popolo d’Israele. Guai ad escluderli. Il mistero di Cristo morto e risorto ha già operato l’unità tra tutti gli uomini. Tutti siamo già uno in lui (cf Gal 3, 26,29).
In questo finale degli Atti Luca tace sulla comparsa di Paolo davanti a Cesare e su un suo contatto con i cristiani di Roma. Forse i due silenzi sono connessi. In 2Tim 4,16 è scritto: “Nella mia prima difesa nessuno è stato al mio fianco, ma mi hanno tutti abbandonato; questo non venga loro imputato”.
Luca è misericordioso e non parla dell’abbandono di Paolo da parte di coloro che avrebbero dovuto essergli vicini. D’altra parte anche Gesù fu abbandonato dai suoi.
Per questo Luca termina con i rimproveri di Isaia ai suoi ascoltatori. Sono come quello che Paolo aveva scritto ai cristiani di Roma: “Se è santa la radice, lo saranno anche i rami. Se però alcuni sono stati tagliati e tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo, non menar vanto contro i rami! Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma la radice porta te. Dirai certamente: Ma i rami sono stati tagliati per innestare me. Bene; essi sono stati tagliati a causa dell’infedeltà, mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare dunque in superbia, ma temi. Se infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te. (…) Quanto a loro, se non persevereranno nell’infedeltà (…), potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo” (Rm 11,16-19. 23a.24b).
Queste parole, e non altre, Paolo ha rivolto, e rivolge ancora, ai cristiani di Roma. Già sono cristiani. Già conoscono, si spera, il Vangelo. Hanno però sempre bisogno, come noi tutti, di ascoltare le parole di Isaia ai Giudei del suo tempo.
Ce n’è abbastanza, per non montare in superbia e non affogare la grazia del Vangelo in un’appartenenza di diritto, con poca fede e carità.
Il vertice del testo è l’enunciazione che la salvezza di Dio passa ai pagani (At 28,28). Paolo l’aveva già detto in Asia Minore (At 13, 46) e in Grecia (At 18, 6). È il cuore stesso del Vangelo: Dio è padre di tutti e tutti siamo fratelli.
Nei due versetti di chiusura degli Atti (At 28,30-31) vediamo Paolo che per circa due anni - più o meno come quelli del ministero di Gesù – continua il suo lavoro di “rematore della Parola”.
L’opera di Luca – Vangelo e Atti – è una delle narrazioni maggiori della Bibbia. Termina con pochissime parole. L’effetto è singolare: pare un bue che finisce a coda di topo. I due ultimi brevi versetti sono la punta di questa coda: un punto.
Ma questo è “il punto” degli Atti: una finestra infinita sui “due giorni della storia” che abbraccia passato e futuro. Da una parte guarda verso il “primo giorno”che si compie in Gesù, il nuovo Adamo, svolta centrale del tempo (die mitte der zeit), che riporta al Padre il vecchio Adamo. È quanto narra il Vangelo.
Dall’altra parte guarda il “secondo giorno” che abbraccia la storia futura. Questo inizio comincia con il dono dello Spirito che ci fa entrare “oggi” nella “via” di Gesù. Così, con e come lui, anche noi torniamo al Padre volgendoci a tutti i fratelli, fino agli estremi confini della terra.
Proprio qui, in questo finale, Paolo apre la storia di Gesù agli estremi confini della terra. Infatti è consegnato ai lontani, prigioniero del massimo potere di oppressione dell’uomo sull’uomo. Paolo per circa due anni (At 28,30a) si trova in un locale – ovviamente di un pagano perché affittato a proprie spese (v. At 28,30b). Lì “accoglie tutti” (At 28,30c). Diventa come l’uomo che sostituisce Gesù, il Samaritano, quando se ne va a Gerusalemme (cf. Lc 10,35). Qui compirà il primo giorno della storia nel suo “essere portato su nel cielo” (Lc 24,51).
La via del ritorno, che ci guarisce dalle ferite mortali, è l’“annuncio del vangelo del regno di Dio” (At 28,31a).
Il Vangelo è racconto del corpo del “Signore Gesù Cristo” (28,31b), protagonista del primo libro. Egli, Parola fatta carne, ridiventa Parola nel Vangelo per farsi carne in ciascuno di noi mediante l’ascolto. “Il regno di Dio”, che è dei poveri (Lc 6,20) - basta “essere uomo per essere un pover’uomo”! - è Gesù stesso. Egli infatti è il Figlio dell’uomo che “si consegna in mani di uomini” (Lc 9,44), suoi fratelli, come nelle mani del Padre (cf Lc 23,46).
Come Paolo è trasfigurato a immagine del Signore, il suo domicilio è l’icona più bella della Chiesa. È infatti nel una casa ad affitto nel cuore della paganità. Lì Paolo vi abita come prigioniero degli uomini e loro servo della Parola.
Qui vediamo che la Chiesa ha il suo centro nel punto più lontano da Dio. È come la croce del Figlio, che ha portato a tutti l’amore del Padre.
Solo una Chiesa siffatta ci dà piena libertà di figli e ci toglie ogni impedimento al Regno. Ciò che insidia il regno di Dio è “l’avere, il potere e il prestigio“. Sono le tre tentazioni di Satana che Gesù ebbe dall’inizio alla fine del suo ministero (Lc 4,1-12 e 23,35-41). Quando noi usiamo come mezzo apostolico ciò che Gesù scartò come tentazione, perdiamo libertà e siamo impediti a testimoniarlo.
Diventiamo come la bestia che sale dalla terra, che “aveva due corna simili a quella dell’agnello”, ma “parlava come un drago” (Ap. 13,11).
La nostra brama di avere, potere e apparire ci impedisce la testimonianza di Gesù e ci fa vittime delle tre concupiscenze del mondo ( cf. 1Gv 2,16).
Proprio perché prigioniero, per amore, Paolo è pienamente libero: “Ricordati che Gesù Cristo […] per il quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata” (2 Tm 2,89).



Divisione del testo:

a. v. 25: divisione tra i Giudei
b. vv. 26-27: accuse di Isaia e appello a conversione
c. v. 28: questa salvezza è inviata ai pagani
d. vv. (29). 30-31: ricapitolazione su Chiesa e attività apostolica

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10 years ago
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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 25 maggio 2015
Commento a Atti 28, 11-24

Così arrivammo a Roma

La navigazione per raggiungere Roma riprende dopo tre mesi. La nave viene da Alessandria e porta le insegne dei “Dioscuri”, i gemelli figli di Giove, protettori dei naviganti. La prima sosta è a Siracusa dove restano tre giorni. Da lì giungono a Reggio, sullo stretto tra Scilla e Cariddi e, dopo un giorno di navigazione, un vento australe li spinge in tre giorni a Pozzuoli, nel Golfo di Napoli, grande porto tra Roma e l’Oriente.
Lì trovano una comunità cristiana, dove sono pregati di restare sette giorni. Nel frattempo la notizia del suo arrivo lo precede a Roma.
Paolo arriva a Roma con questi sentimenti: “Quanto a me il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione” (2 Tm 4,6-8).
Dei fratelli di Roma gli vengono incontro al foro Appio e alle tre Taverne, rispettivamente a 65 km e 50 km da Roma.
La cosa gli dà coraggio. Temeva di non essere accolto bene. Gli Atti sono sobri sull’accoglienza ricevuta a Roma. Ce ne parla però in termini negativi 2Tm 4,9-18.
E “così arrivammo a Roma”, la meta desiderata. Luca, che ha seguito Paolo, esprime con sobrietà il grande evento.
Da qui scompare dalla narrazione il “noi”. L’obiettivo è puntato solo su Paolo, il protagonista. Dio aveva scelto lui come “vaso eletto” per portare il nome di Gesù a tutti i pagani ( At 9,15).
A Roma è concesso a Paolo di restare fuori prigione, agli arresti domiciliari con un soldato di guardia. Dopo tre giorni, non potendo andare in sinagoga, convoca i notabili Giudei.
Ovunque è andato, Paolo si è sempre prima rivolto ai Giudei, destinatari della promessa. Li ama tanto da dire: “ Vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne (Rm 9,3).
Davanti a loro Paolo si presenta e fa una breve apologia di sé: ha fatto nulla contro il popolo e le sue tradizioni. Eppure fu consegnato ai Romani, per l’equivoco che conosciamo sul tempio. Fu riconosciuto innocente e volevano liberarlo, ma i Giudei si opponevano. Per questo fu costretto ad appellarsi a Cesare. Dicendo sobriamente cose note al lettore, conclude che le sue catene sono solo a motivo della speranza d’Israele, ossia la risurrezione, che contrappone Sadducei e Farisei.
A Roma non sanno nulla di questo, ma desiderano sapere qualcosa sulla setta o partito dei seguaci di Gesù, che trova ovunque opposizione. Fissano un giorno per incontrarsi; e numerosi di Giudei si recano da lui. E lui rende davanti a tutti testimonianza sul Regno di Dio, ossia Gesù, compimento della Legge e dei profeti. Parla da mattino a sera. Come sempre, alcuni furono convinti e altri restavano increduli.


Divisione del testo:

a. vv. 11-13: viaggio da Malta a Pozzuoli
b. vv. 14-15: da Pozzuoli a Roma
c. vv. 16-20: entrata in Roma e apologia di Paolo verso i Giudei
d. vv. 21-22: niente contro Paolo e desiderio di conoscere l’eresia cristiana
e. vv. 23-24: testimonianza su Gesù accolta o rifiutata



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10 years ago
1 hour 17 minutes 45 seconds

Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 18 maggio 2015
Commento a Atti 28, 1-10

Quest’uomo è un assassino ... un dio

Nonostante la pioggia, un interludio di quiete dopo la tempesta. L’approdo a Malta è una cordiale accoglienza. I naufraghi, afflitti da freddo e stress, sono confortati da un falò acceso dagli indigeni. Ma anche qui succede un incidente con pericolo di morte. Se sul mare c’era burrasca, a terra c’è una vipera. Si nasconde nella bracciata di sarmenti che Paolo ha raccolto per ravvivare il fuoco. Anche in questa situazione non si tira indietro dal lavorare con le proprie mani. È per lui un punto d’onore: preferirebbe morire piuttosto che fare il contrario (1Cor 9,15). Non è un parassita. Non campa sulla parola che dice, come fanno retori e predicatori. Al contrario, testimonia ciò che dice con la sua vita. Fino a dare la vita stessa.
La vipera, buttata sul fuoco insieme al fascio di legna, salta fuori dalle fiamme e morde la mano di Paolo. Lui la scrolla svelto nel fuoco, ma troppo tardi. La gente di Malta pensa subito che sia un assassino, che gli Dei vogliono punire. Hanno tentato prima con la burrasca, anche al costo di affondare 275 giusti insieme a lui. Deve essere un delinquente particolarmente perverso: scampato non si sa come dal mare, la vendetta divina lo insegue per terra mediante una vipera. Gli indigeni si aspettano che la mano si gonfi e che lui cada stecchito a terra. Con meraviglia succede niente.
Allora il supposto delinquente pensano che sia un dio.
L’episodio serve al lettore per sottolineare ancora una volta che Paolo è un giusto, protetto da Dio sia dalla tempesta che dal veleno della vipera.
E Paolo, come in mare salvò tutti dal naufragio, in terra guarì il padre di Publio e tutti i malati dell’isola che in seguito venivano da lui.
Sostò tre mesi a Malta, in attesa di vento e nave giusta. Nel frattempo non ha certo oziato. Non si dice che abbia evangelizzato. Chi ha letto gli Atti degli Apostoli fino a qui, può supporlo come ovvio.
L’apostolo evangelizza ovunque si trova, sempre spinto dall’amore di Cristo, che “è morto per tutti” (2Cor 5,14).
Sia il viaggio, sia le soste forzate, sia la prigionia, tutto è per l’apostolo opportunità per testimoniare il suo Maestro. Non a caso diceva Nadal dei primi gesuiti: “Casa dell’apostolo è la via”. Tutte le strade, percorse dai piedi dell’uomo che fugge da Dio, diventano luogo d’incontro con ogni fratello per il quale il Signore ha dato la vita. Agli estremi confini della terra, vediamo negli Atti, si arriva non in carrozza o in aereo di prima classe. La Parola si diffonde come il seme sparso sulla terra. Le persecuzioni dei nemici sono la mano stessa di Dio che dissemina la Parola ovunque. E le contrarietà, le vie chiuse e gli incidenti, “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”. (Rm8,28).

La promessa di Mc 16,18 non viene da questo episodio degli Atti. Apparteneva già alla tradizione: è la vittoria sul serpente, la cui menzogna sta all’origine della storia di perdizione e salvezza. La stirpe di Adamo gli schiaccerà la testa (Gen 3,15) salvezza (cf Lc 10, 19!).
Tutta la predicazione di Paolo è una vittoria sulla menzogna che ci avvelenò di morte l’esistenza. Questo racconto sulla vipera è compimento della salvezza promessa, segno di tutta l’attività evangelizzatrice di Paolo.
La Parola, come sempre in Luca, è anche terapia del corpo e salvezza dell’uomo. Il lettore comprende come il discepolo porta a compimento e continua a fare e dire ciò che il Maestro cominciò a fare e dire. Come in 27, 1-44 Paolo è salvato dalle acque, qui a Malta diventa a sua volta salvatore di tutti e da ogni male.
La salvezza non è una parola vuota, ma il racconto di un fatto di salvezza che viene testimoniato e dato a tutti, con gesti concreti, dove le miserie e i limiti diventano luogo di misericordia e comunione.


Divisione del testo:

a. vv.1-2: buona accoglienza dei naufraghi
b. vv. 3-6: Paolo morso da vipera: da maledetto promosso a Dio
c. vv.:7-10: guarigione del padre di Publio e di tanti altri



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10 years ago
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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 11 maggio 2015
Commento a Atti 27, 21-44

Vi esorto a prendere cibo: è necessario per la vostra salvezza

È l’autunno del’anno 60 d.C. Finalmente Paolo parte per Roma. Le vicende giudiziarie, con la lentezza, le arbitrarietà e insensatezze burocratiche, realizzano la sua decisione di andare a Roma (19,21). In essa lo confermò il Signore stesso la notte dopo l’ultimo tentativo di linciaggio subito nel Sinedrio. Venne infatti a confortarlo con le parole: “Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, bisogna che anche a Roma tu testimoni” (23,11).
Lì punta ora il corso della salvezza, guidato da Dio “fino agli estremi confini della terra” (1,8). Glielo confermerà anche un angelo di Dio durante la traversata burrascosa: “Non temere, Paolo! Bisogna che tu compaia davanti a Cesare” Paolo è il prototipo degli inviati che portano l’annuncio messianico a tutti: in concreto lo porta nel cuore dell’impero romano che abbracciava l’Europa, l’Asia minore e tutto il nord Africa.
Grazie a Paolo saranno salvati anche i suoi compagni di viaggio (27,24), prefigurazione dell’umanità intera. Siamo infatti tutti sulla stessa barca.
La nostra esistenza è turbine tempestoso che ci scaglia contro gli scogli e ci sommerge nell’abisso. Eppure tutti siamo salvati “dal viaggio” della Parola che porta salvezza al mondo. Il racconto raffigura l’effetto salvifico di Cristo attraverso il suo testimone. In lui opera la morte perché in tutti gli altri vinca la vita (leggi 2Cor 4,7-18!). Il Venerdì Santo, quando Gesù, luce del mondo, fu crocifisso, si fece tenebra sulla terra. Questa tenebra del Venerdì Santo continua nella croce dei suoi testimoni. E dura non una, ma due settimane, cioè per sempre, fino a quando si compirà il giorno del ritorno al Padre di tutti i suoi figli e “Dio sia tutto in tutti” ( Cor 15,26). Nella traversata per giungere al centro del potere mondano Luca mostra “le sue capacità letterario-narrative, costruendo un racconto colorito, vivace, drammatico, pieno di dettagli, di supense, e avventure, narrato in prima persona plurale. Il che rafforza la concretezza e coinvolge nel “noi” il lettore stesso.
Da abile scrittore, Luca ci tiene a chiudere la sua opera con un finale grandioso, quasi da fuochi d’artificio. La storia non è un arida somma di dati. Lo storiografo antico racconta con uno stile all’altezza dell’argomento trattato. Il modo di dire è l’arte che rende la realtà attraente e leggibile.
Il finale degli Atti è non meno grandioso e sorprendente di quello del Vangelo, dove è sconfitta la morte: invece di essere gettati nell’abisso, siamo risucchiati dal cielo sereno che si apre per accoglierci. Il naufragio è metafora della vicenda di ogni uomo e dell’umanità intera, destinata ad affogare in se stessa. Eppure la nave dovrebbe attraversare il mare e le sue burrasche! E per di più è carica di frumento, alimento di vita.
Su questa nave che si sfascerà, Paolo celebra la sua “messa sul mondo”, che porta salvezza a tutti i naufraghi della vita.
I verbi del testo sono al “noi”. Luca è presente, con Paolo e tutti gli altri. Pure noi lettori facciamo parte di questa barca, come chiunque. Nella traversata della vita siamo tutti vittime della stessa sorte: la morte. Ma la presenza di Paolo, con la Parola che dice e il Pane che spezza, è salvezza per tutti. La Parola e il Pane di Gesù lo hanno fatto uno con Lui, con il suo stesso cammino e la sua stessa meta.
Certamente Luca nei capitoli precedenti ha ricalcato il processo di Paolo su quello del suo Maestro. Anche il suo viaggio a Roma è come il cammino di Gesù nella sua passione. Non mancano somiglianze: la predizione ( At 27,10; cf Lc 22,37s), la violenza della tempesta (At 27,18-20, cf. Lc 18,33 e Lc 23, 44: flagellazione e crocifissione), oscurarsi del cielo (At 27,20; Lc 23,44), estenuazione fisica (At 27,21.33, cf Lc 23,44.45a: Gesù morente), il rompersi di tutta la barca (At 27,41, cf Lc 23,45b: rompersi del velo e morte di Gesù).
Oltre questo confronto allusivo puntuale tra passione di Paolo e di Gesù, si rileva un tema generale di fondo, che si rifà alle parole di Gesù in Luca 6,40: “Il discepolo non è più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro”.
Davanti a prove e sofferenze, Paolo ha lo stesso “stile” del suo maestro: “niente fuga, fiducia totale in Dio e preghiera”. Attraverso l’accettazione delle prove, Paolo è divenuto in tutto sempre più come il suo Maestro. Infine si nota come la morte di Gesù in Lc 23 e il naufragio di Paolo in At 27 hanno la stessa funzione narrativa: sottolinea definitivamente l’innocenza dei due protagonisti.
Paolo stesso aveva scritto : “Sono stato crocifisso con Cristo e non son più io che vivo, ma Cristo vive i me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). La vita di Paolo è risposta d’amore all’amore. E l’amore fa l’amante simile all’amato. Gesù e Paolo sono due che diventano “uno” nell’amore: hanno lo stesso volto, che rispecchia la stessa gloria. In breve: nel cap. 27 l’esistenza umana, nella sua storia di perdizione, diventa storia di salvezza. Il passaggio avviene tramite Paolo. Il suo volto e il suo Spirito è lo stesso del suo Signore che indurì il volto per camminare verso Gerusalemme e mettersi nelle mani di tutti per salvare tutti (cf Lc 9,51ss).
Il racconto presenta il prigioniero Paolo che, pieno di fede, tiene a bada le forze del male. Dà consigli alla ciurma della nave e ai Romani. Garantisce a tutti salvezza nel e non dal naufragio; ed esorta tutti a prendere il cibo che salva dal pericolo di perire. È l’eucaristia (27,35; cf. 28,15 e Lc 22,17.19). Nonostante le forze ostili, sia degli uomini che della natura, siamo tutti destinati a salvezza grazie alla solidarietà del “giusto” con noi. Paolo è “il positivo” di Giona, il missionario che compie la sua missione a imitazione del Maestro, che già aveva salvato dalle tempeste i suoi discepoli in barca. Paolo, prigioniero per Cristo, è come Cristo: salva i suoi compagni prigionieri della morte.


Divisione del testo:

a. vv. 21-26: Paolo, avvisato dall’angelo, promette salvezza delle persone
b. vv. 27-32: il rischio di naufragio
c. vv. 33-38: eucarestia sul mondo
d. vv. 39-44: avventuroso approdo a Malta


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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 4 maggio 2015
Commento a Atti 27, 1-20

Uomini, vedo che la navigazione sta diventando rischiosa

È l’autunno del’anno 60 d.C. Finalmente Paolo parte per Roma. Le vicende giudiziarie, con la lentezza, le arbitrarietà e insensatezze burocratiche, realizzano la sua decisione di andare a Roma (19,21). In essa lo confermò il Signore stesso la notte dopo l’ultimo tentativo di linciaggio subito nel Sinedrio. Venne infatti a confortarlo con le parole: “Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, bisogna che anche a Roma tu testimoni” (23,11).
Lì punta ora il corso della salvezza, guidato da Dio “fino agli estremi confini della terra” (1,8). Glielo confermerà anche un angelo di Dio durante la traversata burrascosa: “Non temere, Paolo! Bisogna che tu compaia davanti a Cesare” Paolo è il prototipo degli inviati che portano l’annuncio messianico a tutti: in concreto lo porta nel cuore dell’impero romano che abbracciava l’Europa, l’Asia minore e tutto il nord Africa.
Grazie a Paolo saranno salvati anche i suoi compagni di viaggio (27,24), prefigurazione dell’umanità intera. Siamo infatti tutti sulla stessa barca.
La nostra esistenza è turbine tempestoso che ci scaglia contro gli scogli e ci sommerge nell’abisso. Eppure tutti siamo salvati “dal viaggio” della Parola che porta salvezza al mondo. Il racconto raffigura l’effetto salvifico di Cristo attraverso il suo testimone. In lui opera la morte perché in tutti gli altri vinca la vita (leggi 2Cor 4,7-18!). Il Venerdì Santo, quando Gesù, luce del mondo, fu crocifisso, si fece tenebra sulla terra. Questa tenebra del Venerdì Santo continua nella croce dei suoi testimoni. E dura non una, ma due settimane, cioè per sempre, fino a quando si compirà il giorno del ritorno al Padre di tutti i suoi figli e “Dio sia tutto in tutti” ( Cor 15,26). Nella traversata per giungere al centro del potere mondano Luca mostra “le sue capacità letterario-narrative, costruendo un racconto colorito, vivace, drammatico, pieno di dettagli, di supense, e avventure, narrato in prima persona plurale. Il che rafforza la concretezza e coinvolge nel “noi” il lettore stesso.
Da abile scrittore, Luca ci tiene a chiudere la sua opera con un finale grandioso, quasi da fuochi d’artificio. La storia non è un arida somma di dati. Lo storiografo antico racconta con uno stile all’altezza dell’argomento trattato. Il modo di dire è l’arte che rende la realtà attraente e leggibile.
Il finale degli Atti è non meno grandioso e sorprendente di quello del Vangelo, dove è sconfitta la morte: invece di essere gettati nell’abisso, siamo risucchiati dal cielo sereno che si apre per accoglierci. Il naufragio è metafora della vicenda di ogni uomo e dell’umanità intera, destinata ad affogare in se stessa. Eppure la nave dovrebbe attraversare il mare e le sue burrasche! E per di più è carica di frumento, alimento di vita.
Su questa nave che si sfascerà, Paolo celebra la sua “messa sul mondo”, che porta salvezza a tutti i naufraghi della vita.
I verbi del testo sono al “noi”. Luca è presente, con Paolo e tutti gli altri. Pure noi lettori facciamo parte di questa barca, come chiunque. Nella traversata della vita siamo tutti vittime della stessa sorte: la morte. Ma la presenza di Paolo, con la Parola che dice e il Pane che spezza, è salvezza per tutti. La Parola e il Pane di Gesù lo hanno fatto uno con Lui, con il suo stesso cammino e la sua stessa meta.
Certamente Luca nei capitoli precedenti ha ricalcato il processo di Paolo su quello del suo Maestro. Anche il suo viaggio a Roma è come il cammino di Gesù nella sua passione. Non mancano somiglianze: la predizione ( At 27,10; cf Lc 22,37s), la violenza della tempesta (At 27,18-20, cf. Lc 18,33 e Lc 23, 44: flagellazione e crocifissione), oscurarsi del cielo (At 27,20; Lc 23,44), estenuazione fisica (At 27,21.33, cf Lc 23,44.45a: Gesù morente), il rompersi di tutta la barca (At 27,41, cf Lc 23,45b: rompersi del velo e morte di Gesù).
Oltre questo confronto allusivo puntuale tra passione di Paolo e di Gesù, si rileva un tema generale di fondo, che si rifà alle parole di Gesù in Luca 6,40: “Il discepolo non è più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro”.
Davanti a prove e sofferenze, Paolo ha lo stesso “stile” del suo maestro: “niente fuga, fiducia totale in Dio e preghiera”. Attraverso l’accettazione delle prove, Paolo è divenuto in tutto sempre più come il suo Maestro. Infine si nota come la morte di Gesù in Lc 23 e il naufragio di Paolo in At 27 hanno la stessa funzione narrativa: sottolinea definitivamente l’innocenza dei due protagonisti.
Paolo stesso aveva scritto : “Sono stato crocifisso con Cristo e non son più io che vivo, ma Cristo vive i me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). La vita di Paolo è risposta d’amore all’amore. E l’amore fa l’amante simile all’amato. Gesù e Paolo sono due che diventano “uno” nell’amore: hanno lo stesso volto, che rispecchia la stessa gloria. In breve: nel cap. 27 l’esistenza umana, nella sua storia di perdizione, diventa storia di salvezza. Il passaggio avviene tramite Paolo. Il suo volto e il suo Spirito è lo stesso del suo Signore che indurì il volto per camminare verso Gerusalemme e mettersi nelle mani di tutti per salvare tutti (cf Lc 9,51ss).
Il racconto presenta il prigioniero Paolo che, pieno di fede, tiene a bada le forze del male. Dà consigli alla ciurma della nave e ai Romani. Garantisce a tutti salvezza nel e non dal naufragio; ed esorta tutti a prendere il cibo che salva dal pericolo di perire. È l’eucaristia (27,35; cf. 28,15 e Lc 22,17.19). Nonostante le forze ostili, sia degli uomini che della natura, siamo tutti destinati a salvezza grazie alla solidarietà del “giusto” con noi. Paolo è “il positivo” di Giona, il missionario che compie la sua missione a imitazione del Maestro, che già aveva salvato dalle tempeste i suoi discepoli in barca. Paolo, prigioniero per Cristo, è come Cristo: salva i suoi compagni prigionieri della morte.

Divisione del testo:

a. vv. 1-8: partenza per Roma e sosta a Lasaia
b. vv. 9-12: partenza da Lasaia sconsigliata da Paolo per la previsione della tempesta
c. vv. 13-20: la tempesta


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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 27 aprile 2015
Commento a Atti 26, 24-33

Sei matto, Paolo!” ... "Per poco mi persuadi a farmi cristiano!

All’origine di ogni pensare e fare umano sta il desiderio di bloccare e vincere la morte. Per questo le parole di Paolo sulla risurrezione interpellano tutti. Poveri e ricchi, schiavi e potenti, pagani o giudei, sono chiamati a convertirsi al Dio della vita. La reazione all’annuncio di Paolo è il rifiuto a priori di Festo:“Tu sei matto”, oppure l’interesse di Agrippa: “Per poco mi persuadi”. La riposta negativa o positiva, incipiente o piena. è lasciata alla nostra libertà. La realtà è comunque quella che è. Sta a noi negarla o accettarla.
Come ad Atene, Paolo è interrotto mentre parla della risurrezione. I Greci, più educatamente, gli dissero : “Ti ascolteremo un’altra volta” (At 17,32). Il rozzo liberto Festo, più direttamente, dice a Paolo che delira, impazzito dal troppo sapere (v.24).“Chi troppo studia ei poi pazzo diventa”.
Qualunque sia la reazione, Paolo ha comunque detto ciò che voleva. La parola è seme caduto sulla terra, sempre pronto a germogliare se è accolto. Per questo Luca annota le reazioni di Festo e Agrippa: sono le stesse del lettore che si identifica con loro.
Davanti alla risurrezione nessuno è indifferente. O si reagisce come Festo, che la ritiene impossibile, o come Agrippa che quasi quasi si farebbe cristiano!
Festo non a caso interviene dopo aver sentito parlare della risurrezione di Gesù, anticipo della nostra. È ciò che i pagani ignorano: solo gli dei sono immortali. Anche i sadducei, a differenza dei farisei, negano che ci sia risurrezione.
Per Festo parlare di risurrezione è un delirare fuori dal solco di ogni buon senso. L’uomo è “humus”, terra: dalla terra viene e alla terra ritorna. L’uomo è memoria mortis: sa che non spetta a lui la vita. La morte è l’ultima parola. La luce si spegne e l’oscurità dell’Ade avvolge tutti. Non c’è morto che rigermogli dal sottosuolo. Al massimo c’è l’“apoteosi”, vaga forma di divinizzazione riservata agli imperatori e agli eroi. Costoro, pur mortali e morti, non (si) sono ritenuti pari ai comuni mortali. Ma tale divinizzazione è un evidente delirio dei loro successori, che con loro si identificano. In realtà i potenti non hanno alcun potere di dare vita a sé o ad altri. L’unico potere che hanno è quello di dare e seminare morte.
L’uomo riceve e trasmette la vita. Ma si tratta sempre e solo di vita caduca. La scadenza, certa e imprevedibile, è comunque puntuale come la morte: viene quando viene, né un attimo prima né un attimo dopo. Inoltre è chiaro che all’uomo è impossibile dar vita a un morto, anche se gli riesce bene dare morte a un vivo.
La vita non è in nostro potere. È solo in potere della Vita dar vita. L’uomo non può produrre, ma solo ricevere o trasmettere una vita mortale. È talora in grado di ritardare la morte, ma non di sconfiggerla.
Quanto al risuscitare un morto non se ne parla. La resurrezione non è produzione di forza d’uomo né deduzione di suoi ragionamenti. Non ci è possibile neppure pensare di operarla – se non in casi di grave delirio. Ma siamo “in grave errore” (Mc 12,24.27!) se pensiamo che sia reale solo ciò che è possibile a noi. L’universo e tutto il suo arredamento- uomini e bestie compresi!- è uno spettacolo continuo che nessuno di noi è in grado di fare o pensare di fare. Davanti ad esso, presi da meraviglia, a stento balbettiamo qualcosa!
Neppure la nostra vita siamo in grado di produrre – tranne chi ritiene di essersi fatto da sé, senza accorgersi che si è semplicemente “fatto”. Eppure la nostra vita è corrente di energia che passa nel fragile filo della nostra esistenza. Ma non è generata dal filo.
La risurrezione è pensabile solo partendo dalle possibilità della Vita stessa, che non produciamo noi, ma che riceviamo in dono. Neppure un’infinita serie di mortali può dare origine alla vita. Infinite cifre dopo una virgola con lo zero davanti, non fanno mai uno.
Per questo Gesù dice ai Sadducei che ignorano la promessa e la potenza di Dio. Solo partendo da lui si può parlare di vita e di quanto c’è. Le varie scienze non possono che studiare ciò che c’è, o, al massimo simularlo utilmente per scopi positivi o negativi. “Sapere è potere. Potere di servire e migliorare o di dominare e distruggere.
La risurrezione è l’apice del cosmo, che tutto aspira alla pienezza di vita. “Perché Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sovrani sulla terra” (Sap 1,13ss.).
La promessa di Dio è la Scrittura che lo rivela nelle sue opere e la sua potenza è l’esperienza personale del suo amore (cf. Mc 12,24). Non a caso nei tre sinottici la disputa sulla risurrezione è posta tra il tributo a Cesare - rappresentante del potere di dar morte a tutti - e il comando dell’amore - potere di Dio che a tutti dà vita. Il Dio della Bibbia “non è un Dio dei morti, ma dei viventi” (Mc 12,27).
Ed è “ragionevole” che Dio ci sia e sia così. Altrimenti il dio sarebbe la morte e la morte non può produrre nulla. Se Dio non ci fosse non ci sarebbe nulla di ciò che c’è, neanche chi lo nega.
L’ateismo pratico non è razionale. Ma ragionevole, con radici più profonde della ragione. È un tipico fenomeno ebraico cristiano, che viene dal profondo del cuore. Nega infatti quel Dio che si paluda da padrone di tutto e di tutti, legislatore che tutela il suo potere e giudice supremo che si fa anche boia di chi si ribella. Questa è l’immagine di Dio che uscì dalla bocca del serpente (cf Gen 3,1ss.). È la maschera satanica di quel dio che le religioni venerano e che gli atei negano. È quel dio che se “non ci fosse bisognerebbe inventarlo” per giustificare il potere dell’uomo sull’uomo. Ma “se ci fosse, bisognerebbe ucciderlo” per liberare l’uomo.
Origine dell’ateismo è quindi la falsa immagine di Dio comune a tutti. Si chiama peccato originale, perché è poco “originale”. È anzi comune a tutti e produce ogni equivovo e male. Uno diventa come quel dio che si immagine.
Anche i primi cristiani erano perseguitati come “atei”.Infatti il loro Dio è il crocifisso da tutti i potenti e non il potente che mette in croce tutti. La croce “sdemonizza Dio” e intacca le radici di ogni potere, abolendo la mentalità “padronale”.
Se l’ateismo pratico ha la sua origine in una falsa immagine di Dio, l’ateismo teorico invece è una banalità logica: dalla morte non viene la vita e dal niente viene niente. L’esperienza invece dice che ci sia qualcosa o, che è lo stesso, l’illusione che di qualcosa.
Unica argomentazione pro ateismo - creduta con gran fede come razionale - è quella di Feuerbach. Secondo lui Dio sarebbe proiezione dei nostri desideri. A parte che è impossibile provare una non esistenza, questa argomentazione è illogica. Sarebbe come dire che, se hai fame, il cibo non esiste: è semplice proiezione della tua fame. Certo è che la fame non produce il cibo. Dalla fame però si può dedurre certamente che ci sia il cibo.
Sono d’accordo con Margherita Hack quando dice che l’ateismo è una fede. Se si traveste di razionalità, va contro la ragione: diventa supponente, strombazzante e intollerante.
Anche il panteismo, diverso dal panenteismo, è irrazionale: la somma di infinite insufficienze non fa una sufficienza, neanche nella peggior scuola di quartiere!
Nessuno di noi ha fatto se stesso o l’universo. L’uomo non è “faber” di sé o di altro da sé: è tras-formatore di sé e di ogni realtà, che preesiste a lui. Il suo intervento gli serve per vivere e vivere meglio, prendendo, coltivando e custodendo ciò che c’è.
Comunque la nostra prima azione è “prendere” e “mangiare”, come i bambini. Solo di conseguenza poi facciamo e continuiamo a fare per tutta l’esistenza, fino a dopo il decesso, pipì e popò! Uno immagini quanta ne facciamo e come sarebbe grave, anzi mortale, il contrario. Chi fa queste due azioni, fondamentali e più che quotidiane, comuni al superuomo e al bambino, comincia un po’ alla volta a modulare e articolare i suoni, per creare la parola, segno di ogni realtà e principio di ogni comunicazione e ulteriore trasformazione, dalla danza alla musica, dalla scultura alla poesia. Solo nell’arte diventiamo creatori, dato che la nostra “arte a Dio quasi è nepote”.
E che dire della filosofia e della teologia? Se non fioriscono in una vita bella e buona, sono ”palea”, paglia da bruciare, direbbe Tommaso d’Aquino. Sono secrezioni corrosive di un cervello delirante, che scambia idee per realtà, supporto a ogni potere di morte.

NB. Bisogna distinguere la risurrezione dalla rianimazione di un corpo che torna a vita mortale. È il caso di Lazzaro, morto e restituito vivo alle sue sorelle, e di altri casi simili narrati altrove. La risurrezione è una “divinizzazione” del corpo. L’uomo è corpo ed ha l’anima! Per risurrezione intendiamo quella di Gesù, punto d’arrivo di tutti i Vangeli. Gesù risorto è il, “primogenito di coloro che risuscitano dai morti” (Col 1,18), “primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29). Anche il loro corpo, come quello del Figlio, in forza dello Spirito vive già ora di gloria in gloria, trasfigurato nel Dio amore (2Cor 2,18). La risurrezione è la trasformazione dell’amore, gioia di appagamento che accresce il desiderio che a sua volta accresce l’appagamento, in un dinamismo senza fine.
Tutto ciò che è corporeo esiste se ha un limite che lo definisce. La vita e l’amore per sé, se sono finiti, non esistono più. Come risorgerà il corpo? Lo intuiamo dai racconti di risurrezione di Gesù. Teniamo presente che le potenzialità della materia sono infinite. Il calcare nella roccia è un minerale; lo stesso calcare nel fiore ha vita vegetale – che varietà i colori e forme! – e nelle bestie ha vita animale – che quantità di specie e di possibilità! – e nell’uomo è corpo umano ( cf 1Cor 15,35-58).
E le possibilità dell’uomo sono senza limite: animato dall’amore, vita di Dio stesso, si trasfigura di gloria in gloria. Anche l’universo geme nelle doglie del parto (Rm 8,19-30) nell’attesa di cieli nuovi e terra nuova (2Pt 3,13), quando Dio sarà tutto in tutte le cose (Cor 15,28).
Agrippa, a differenza di Festo, è ebreo. Conosce Dio e le sue promesse. Ed è pure al corrente di ciò che è capitato a Gesù e discepoli, cosa nota a tutti. Paolo suppone che creda nei profeti e quindi anche nella risurrezione promessa.
L’apologia di Paolo ha preso un’altra piega rispetto a quello che era l’intento di Festo. Questi voleva formulare accuse per giustificarne l’invio dal tribunale dell’imperatore; ma l’interrogatorio è diventato una testimonianza su Gesù. Comunque l’imputato risulta innocente dal punto di vista politico. È e resterà prigioniero solo per motivi formali, non politici.

DIVISIONE:

a. vv. 25-27: sapienza e potere dell’uomo,Sapienza e potere di Dio
b. vv. 26-28: Agrippa, Giudeo, conosce le scritture e i fatti di Gesù: è tentato di farsi cristiano
c. v. 29. Paolo desidera che tutti gli ascoltatori, compreso Festo, diventino come lui
d. vv. 30-32: innocenza di Paolo. Festo non lo libera perché si è appellato a Cesare


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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 20 aprile 2015
Commento a Atti 26, 1-23

Non fui disobbediente alla visione celeste

È l’ultimo grande discorso di Paolo. Per la terza volta è narrata l’esperienza di Damasco. Vedi anche At 9, 1-19 e At 22, 3-16.
L’apologia in cui l’accusato difende se stesso (vv. 1.2-24) diventa apologia della fede in Gesù e prova scritturistica del suo mistero, di cui Paolo è servitore e testimone.
Siamo al culmine dell’opera di Luca che riassume gli aspetti fondamentali della storia della salvezza. In essa Paolo ha un ruolo particolare. La profezia di Simeone sul bambino Gesù come “luce per illuminare le genti” (Lc 2,29-32) si compie nel ministero di Paolo (At 26,17s). La prospettiva di salvezza universale predetta dai profeti fa da grande inclusione a tutta l’opera lucana, che si apre con la profezia di Simeone e si conclude con questa testimonianza di Paolo.
L’ apologia di Paolo diventa un discorso missionario ai Giudei che mostra Gesù come colui che fu promesso da Mosè e dai profeti dei tempi antichi.
Nei due racconti precedenti del fatto di Damasco Paolo è presentato rispettivamente come“vaso eletto” (9,15) e “testimone” ( 22,15). Qui invece è “profeta”, portavoce di Dio. Infatti nei vv. 16-18 si identifica ai profeti (cf Ez 2, 1-6; Ger 1, 8; Is 35, 5; 42, 7; 61, 1).
Qui Paolo si rifà a loro e a Mosè per comprendere il grande mistero del Messia sofferente, primo dei risorti e luce di salvezza per tutti (26, 22.23). Siamo all’apice cristologico degli Atti.
Il Cristo che ha conquistato lui, persecutore di cristiani, grazie alla sua testimonianza deve liberare dalla tenebra il popolo di Israele e i pagani (vv. 13.18.23).
In questo terzo racconto dell’esperienza di Damasco il Signore stesso si fa vedere da Paolo e lo chiama alla sua missione universale. Pure lui, al pari degli apostoli - anche se dopo i quaranta giorni (At 1,3) e da ultimo - ha visto il Signore risorto in persona che l’ha direttamente chiamato ad essere suo servitore e testimone (v. 16).
Paolo, membro della “corrente più rigorosa della nostra religione” (v. 5), rappresenta visibilmente ai suoi ascoltatori la fedeltà alla promessa di Dio che si è adempiuta in Gesù, quella promessa verso la quale i suoi avversari sono diventati disobbedienti (v. 19).
Più che una difesa di Paolo, le sue parole sono una difesa della promessa di Dio che si è avverata in Gesù e in chi lo accoglie.
Gesù e Paolo - il testimoniato e il suo testimone - sono i personaggi principali dell’opera lucana. Ma i due, pur distinti, sono oramai uno nell’unità d’amore. Paolo dice: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
Paolo è l’apostolo-tipo attraverso del quale il Risorto porta a compimento la sua missione salvifica universale. Questo è il grande disegno di Dio sull’umanità, già annunciato dai profeti.
Paolo è sempre stato fedele e obbediente alla parola. Prima dell’incontro di Damasco era fedele da fariseo (vv.4-8) - tanto zelante da perseguitare i cristiani (vv.9-11). Dopo l’incontro con col Cristo (vv. 12-18) divenne fedele alla voce celeste che l’ha costituito suo servitore e testimone per portare a tutti la salvezza d’Israele (vv. 19-23).
Come si vede, lo zelo per Dio e la fedeltà a lui può portare a uccidere oppure a salvare l’uomo. Da qui la necessità del discernimento degli spiriti: “Voi non sapete di che spirito siete: il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le vite degli uomini ma a salvarle” (Lc 9,55). Così dice Gesù agli zelanti Giacomo e Giovanni. Ogni spirito che uccide e perde l’uomo, è “diabolico”. Lo Spirito di Dio invece salva e dà vita. Il criterio di discernimento per riconoscere lo Spirito di Dio è “la carne” di Gesù, (cf. Gv 4,2), epifania dell’amore di Dio offerto ad ogni carne. Gesù è Figlio di Dio perché è Figlio dell’uomo che ama ogni uomo, giusto o peccatore, come figlio del Padre.
L’uomo è l’unica immagine di Dio. Ciò che si fa all’uomo, lo si fa a Dio. Nessuno lo dimentichi, di qualunque religione sia o non sia. Chi si divide e condanna un uomo, non importa se più o meno in nome di Dio, ha uno spirito “diabolico e satanico” (= divisore e accusatore).
L’incontro con il Vivente, che si identifica con ogni carne, ha fatto passare Paolo dall’amore della verità alla verità dell’amore.
L’amore della verità uccide l’uomo in nome di Dio – di quel dio che in realtà è diabolico e satanico. Questo vale per ogni uomo, cristiano, mussulmano o ateo. L’unico culto vero a Dio, per Mosè e i Profeti come per ogni persona degna di tale nome, è l’amore del prossimo. E per “prossimo” si intende anche chi è accecato e uccide l’altro in nome di interessi diabolici travestiti o meno di religiosità. Non è il diavolo la scimmia di Dio?
La verità dell’amore invece apre al rispetto di ogni uomo. Se l’amore della verità diventa sempre amore del potere, la verità dell’amore sprigiona in tutti il potere dell’amore.
Paolo, come Gesù, suo Signore, è il maestro della verità dell’amore (cf 1Cor 13,1ss).


DIVISIONE:
a. vv. 1-3 introduzione
b. vv. 4-8: Paolo zelante fariseo
c. vv. 9-18: incontro con Gesù e sua chiamata alla missione tra i pagani
d. vv. 19-23: “predica” ad Agrippa su Cristo primo tra i risorti, luce e vita per tutti

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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 13 aprile 2015
Commento a Atti 25, 13-27

Anch’io vorrei ascoltare l’uomo

Comincia una lunga sezione (At 25,13-26,32) in cui Paolo, dopo aver testimoniato davanti al Sinedrio e ai governatori Felice e Festo, appare anche davanti all’ultimo re giudeo. Infatti il re Agrippa si trova in visita di “presentazione” a Festo. Questi gli espone il caso di Paolo. Il re dice:”Anch’io vorrei ascoltare l’uomo”. La scena richiama il processo di Gesù quando Pilato lo manda da Erode (Lc 23,6-12). Ma il racconto è più ampio (44 versetti contro 7) e articolato. Infatti, oltre l’irrisione di Festo (At 26, 24), appare sulla sua bocca il nome di Gesù e la sua risurrezione (At 25,19). Inoltre l’incontro tra Festo e re Agrippa introduce una nuova convocazione e apologia di Paolo che occuperà tutto il capitolo 26 degli Atti.
In questo lungo racconto si compie quanto disse il Signore ad Anania circa Polo, “vaso eletto per portare il mio nome dinnanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele” (At 9, 15).
Accade a lui quanto predisse Gesù ai discepoli prima della passione: “Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori a causa del mio nome” (Lc 21, 12s).
L’esposizione di Felice ad Agrippa mette in risalto l’innocenza di Paolo e l’infondatezza delle accuse contro di lui come “ bubbone pestifero”, pericoloso sovvertitore dell’ordine pubblico.
Nell’economia degli Atti il racconto serve, oltre che a sdoganare il cristianesimo come “religio licita”, a mostrarne la fondatezza. Ciò che è accaduto e narrato nel Vangelo e che che Paolo annuncia è noto a tutti, anche al re: “Non sono fatti accaduti in segreto” (At 26,26).
L’ingresso in pompa magna dei grandi della regione, con il seguito di generali e nobili della città, manifesta l’importanza del cristianesimo: non è una setta clandestina, ma una “Via”nota e aperta a tutti, senza esclusioni di ceto, genere o razza.
La grandiosa scenografia del processo diventa il palco adeguato alla testimonianza di Paolo, che a tutti porta l’annuncio di Gesù.
Nei vv. 13-22 il governatore Festo presenta ad Agrippa e Berenice il caso di Paolo. È in breve la storia del suo processo, iniziato dal suo predecessore Felce due anni prima e continuato da lui. Le imputazioni criminose contro Paolo sono infondate. Non è un caso politico, come avrebbero voluto i suoi accusatori, per farlo eliminare dai romani. Si tratta di questioni religiose circa un certo Gesù, morto, che Paolo afferma essere vivo. Per questo Festo voleva rimandare il processo a Gerusalemme. Ma Paolo aveva rifiutato, perché lo volevano uccidere e, in quanto cittadino romano, si era appellato a Cesare.
Nei vv. 23-27, trascorso un giorno dall’arrivo del re Agrippa, Festo inizia il processo a Paolo davanti a lui e tutte le autorità cittadine. Non si può presentarlo all’imperatore senza alcuna accusa. Per questo chiede agli astanti di esaminare il caso per vedere cosa possa scrivere a Cesare. È infatti assurdo inviargli un prigioniero da giudicare senza alcuna incriminazione contro di lui.
Tema fondamentale del testo è sempre e ancora l’innocenza politica di Paolo e la rilevanza pubblica del messaggio cristiano che lui porta a tutti, compresi governati e re.



DIVISIONE
a. vv. 13-23: Festo presenta il caso di Paolo al re Agrippa
b. vv. 24-27 : Festo presenta Paolo in tribunale davanti a un pubblico d’eccezione.

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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 30 marzo 2015
Commento a Atti 25, 1 - 12

A Cesare ti sei appellato da Cesare andrai!

Il testo presenta la svolta decisiva: Paolo dovrà andare a Roma, centro del potere mondiale, responsabile ultimo della crocifissione di Gesù. Già ad Efeso Paolo si era posto in cuore di attraversare l’Acaia e di giungere a Gerusalemme, dicendo. “ Dopo essere stato là è necessario che io veda anche Roma” (At 19,21). La notte che l’aveva testimoniato a Gerusalemme davanti al Sinedrio, il Signore stesso lo aveva incoraggiato: “Coraggio! Come mi hai reso testimonianza a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma” (At 23,11). Lì si compirà il suo camino nel racconto di Luca.
La malevolenza di chi vuol ucciderlo, la disonestà interessata del governatore Felice e opportunismo pilatesco di Festo compiono ciò che la mano del Signore aveva preordinato ( cf At 4,28). Il Signore è sovrano: utilizza tutto il nostro male per compiere tutto il suo bene. Il male massimo da noi fatto, la croce di Gesù, compie il massimo bene che Dio vuole: la salvezza di tutti. È quanto la prima comunità comprende dopo la prima persecuzione e l’imprigionamento di Pietro e Giovanni (cf. At 4,23-28).
Per sé Paolo avrebbe dovuto essere stato liberato da Felice stesso dopo due anni di detenzione senza prove per le accuse. A maggior ragione avrebbe dovuto farlo il suo successore Festo. Ma non era il caso di cominciare a inimicarsi i potenti che doveva cercare di governare. Paolo non vuole il processo a Gerusalemme: è chiaro che lo vogliono linciare. Hanno già tentato più volte. La quarantina di fanatici che avevano fatto voto a Dio di non mangiare né bere prima di aver ucciso Paolo, dopo due anni dovrebbero essere morti. Ma certamente si saranno poi sentiti in dovere di mutare il voto (cf At 23,12ss). Comunque di fanatici disposti ad uccidere in nome di dio ce ne sono stati e ci saranno sempre.
Paolo sapeva di dover andare a Roma a testimoniare il Vangelo di Gesù. Ma avrebbe preferito andarci da libero. Difatti lui si era appellato al tribunale di Cesare che c’era a Cesarea: “Qui mi si deve giudicare” (At 25,10). Paolo è innocente riguardo alle accuse che gli muovono e non vuol andare e Gerusalemme. Sapeva che lì l’avrebbero ucciso. Si appella a Cesare perché vede che Festo voleva farlo giudicare dal Sinedrio. Politicamente è innocente. Le accuse religiose se le vedano tra loro. Se Paolo fosse andato a Gerusalemme, certo non sarebbe più arrivato a Roma.
Per sé Festo non avrebbe motivo di mandarlo a Roma. Poteva e doveva liberarlo lui a Cesarea – cosa che già avrebbe dovuto fare il suo predecessore che ha passato a lui la patata bollente.
Forse avrà addotto il motivo che fosse più opportuno liberarlo a Roma per non creare subito sedizioni in quella polveriera sempre pronta ad esplodere.
A Luca interessa mostrare l’innocenza religiose e politica sia di Gesù che di Paolo. Nel frattempo, dato che un libro è pubblico, non vuol criticare apertamente il potere romano di perpetrare ingiustizie. Non è mai bene inimicarsi il potere, soprattutto quando sei nel mirino.
Paolo andrà a Roma e resterà altri due anni. Anche a Roma gli Atti non parlano di processo contro Paolo. Certamente ci sarà stato. La storia di Paolo diventa quella di tutti i cristiani nei quali continua la passione di Cristo: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo, che è la Chiesa” (Col 1,24). Per questo gli Atti preferiscono terminare con l’innocente in prigione, che continua a testimoniare con libertà e franchezza il Signore Gesù. Anche se il martire della Parola è legato o addirittura ucciso, la Parola non è prigioniera. Si esprime e realizza pienamente nel martirio stesso, che associa il discepolo al mistero di fecondità del suo Signore: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” ( Gv 12,24).
Sappiamo che Paolo è innocente, sia verso i Giudei sia verso i Romani. Il suo sottomettersi alla legge romana mostra come i cristiani sono aperti a tutti i popoli e rispettano le leggi di tutti.






DIVISIONE
a. vv.1-5: invito del Sinedrio a Cesare per il processo a Paolo
b. vv.6-8: accuse contro Paolo non provate e sua innocenza
c. vv.9-12: il rifiuto di essere processato a Gerusalemme e l’appello a Cesare

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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 23 marzo 2015
Commento a Atti 24, 10 - 27

A motivo della risurrezione dei morti io sono giudicato

Paolo è innocente: non è accusabile di sedizioni ed è fedele all’autentico giudaismo. L’unico problema che ha con il giudaismo è la sua fede nella risurrezione che è una pura questione religiosa, dibattuta all’interno dei giudei (vv.10-21).
La scena « è lo scontro definitivo » tra Paolo e giudaismo. Paolo replica a tutte le accuse. Lui è cristiano. Ma ciò che Tertullo chiama airesis (= eresia) per Paolo è “la via”. La stessa degli antenati: è la fede della legge e dei profeti. Quella dei giudei tutti.
Per Luca e Paolo è fondamentale: c’è continuità tra la genuina tradizione d’Israele e la fede cristiana. Paolo qui è l’araldo di una teologia della storia, dove i rapporti tra giudaismo e cristianesimo si pongono su di un piano di continuità.
Felice già era informato sulla “Via”. Rinvia il giudizio all’arrivo del tribuno e nel frattempo mantiene Paolo in prigione (vv.23.27). Qualche giorno dopo Felice, con sua moglie Drusilla, giudea, fa venire Paolo alla sua presenza.
Paolo gli parla di Cristo, di giustizia e temperanza, del giudizio di Dio. Tema non caro agli orecchi degli ascoltatori. Paolo capisce che ancor di più gli interesserebbe una bustarella per liberarlo. Lo richiamerà quando avrà tempo. Il potente deve sempre fingere di essere impegnato… a mantenere l’altro sotto il suo potere (vv. 22-27).
Il procuratore Felice tace sulle risposte di Paolo: la teologia non è competenza dell’autorità romana. Essa può essere solo un arbitro neutrale e imparziale. Una neutralità per Luca determinante per il cammino dell’evangelo nel mondo greco-romano.
A Cesarea, città sede di guarnigione e porto cosmopolita, sommo sacerdote e i membri del sinedrio giocano fuori casa. A Cesarea, città cosmopolita, truppe di origine pagana e il governatore potevano risiedere senza provocare i giudei. La scelta di Cesarea da parte dei romani era segno di rispetto per Gerusalemme, centro religioso giudaico.






DIVISIONE
a. vv. 10-21: Paolo controbatte tutte le accuse
b. vv. 22-27: Paolo in prigione annuncia il Vangelo al governatore e consorte

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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 16 marzo 2015
Commento a Atti 24, 1 - 9

Quest’uomo una peste che suscita insurrezioni dovunque su tutta la terra

La delegazione di vari membri del Sinedrio giunge da Gerusalemme a Cesarea. La capeggia il sommo sacerdote Anania. Portano con sé un avvocato di professione per formulare l'accusa. È chiaro che c’è bisogno un azzeccagarbugli per riuscire a imbastire un’accusa che non sta in piedi (vv.1-9).
Paolo fronteggia le autorità giudaiche. Servono il Dio di Israele e usano un avvocato per accusarlo davanti ai pagani. Non ha bisogno di avvocato. Lo Spirito parla e lui. Centro della sua difesa è ancora una volta l’affermazione della risurrezione dei morti, grazie alla quale il lettore comprende che allude alla risurrezione di Cristo, il Signore.
Paolo, senza bisogno di avvocato – non gli manca la lingua né il cervello -, riprende uno ad un i capi d’accusa e li confuta. Dopo la “captatio benevoletiae”, sobria e molto untuosa, quella di Tertullo, dice di essere stato a Gerusalemme per una dozzina di giorni a compiere i suoi voti al Tempi. Nessuno l’ha trovato a far litigi, crear confusione o fomentare sedizioni né tra il popolo, né in sinagoga o in città.
Non hanno prove di ciò di cui lo accusano. Il tumulto l’hanno fatto loro tra di loro. La “Via”, che lui segue e che essi chiamano “eresia o setta”, è quanto sta nella legge e nei profeti: la speranza della risurrezione dei morti.
Paolo è innocente: non è accusabile di sedizioni ed è fedele all’autentico giudaismo. L’unico problema che ha con il giudaismo è la sua fede nella risurrezione che è una pura questione religiosa, dibattuta all’interno dei giudei (vv.10-21).
La scena « è lo scontro definitivo » tra Paolo e giudaismo. Paolo replica a tutte le accuse. Lui è cristiano. Ma ciò che Tertullo chiama airesis (= eresia) per Paolo è “la via”. La stessa degli antenati: è la fede della legge e dei profeti. Quella dei giudei tutti.
Per Luca e Paolo è fondamentale: c’è continuità tra la genuina tradizione d’Israele e la fede cristiana. Paolo qui è l’araldo di una teologia della storia, dove i rapporti tra giudaismo e cristianesimo si pongono su di un piano di continuità.
Felice già era informato sulla “Via”. Rinvia il giudizio all’arrivo del tribuno e nel frattempo mantiene Paolo in prigione (vv.23.27). Qualche giorno dopo Felice, con sua moglie Drusilla, giudea, fa venire Paolo alla sua presenza.
Paolo gli parla di Cristo, di giustizia e temperanza, del giudizio di Dio. Tema non caro agli orecchi degli ascoltatori. Paolo capisce che ancor di più gli interesserebbe una bustarella per liberarlo. Lo richiamerà quando avrà tempo. Il potente deve sempre fingere di essere impegnato… a mantenere l’altro sotto il suo potere (vv. 22-27).
Il procuratore Felice tace sulle risposte di Paolo: la teologia non è competenza dell’autorità romana. Essa può essere solo un arbitro neutrale e imparziale. Una neutralità per Luca determinante per il cammino dell’evangelo nel mondo greco-romano.
A Cesarea, città sede di guarnigione e porto cosmopolita, sommo sacerdote e i membri del sinedrio giocano fuori casa. A Cesarea, città cosmopolita, truppe di origine pagana e il governatore potevano risiedere senza provocare i giudei. La scelta di Cesarea da parte dei romani era segno di rispetto per Gerusalemme, centro religioso giudaico.






DIVISIONE
vv. 1-9: accuse contro Paolo
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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 15 dicembre 2014
Commento a Atti 23, 22- 35

Senza alcuna accusa degna di morte o di prigione

Come si vede bene anche da questo testo, lo stile narrativo di Paolo è quello di un pittore, o meglio di un picture. Somiglia infatti a un accurato copione da film.
Il tema del racconto è l’innocenza di Paolo. Anche Pilato dichiarò innocente Gesù e voleva liberarlo. Ma la folla inferocita lo costrinse a consegnarlo a morte. Un tribuno, dopo aver tre volte liberato Paolo dalla folla che voleva linciarlo, lo dichiara innocente. Dopo tre giorni che lo frequentiamo nelle pagine di ben tre capitoli del libro (At 21,31-23,35), solo ora ci viene detto il suo nome: Claudio Lisia.
Questi, per salvarlo dal complotto degli zeloti sicari, nel segreto della notte, lo invia come prigioniero da Felice, governatore della Giudea. Comincia così la sua lunga via crucis, il cui calvario sarà Roma. Né il tribuno, né i governatori Felice e Festo, come Pilato e ogni rappresentante del grande potere mondiale, riusciranno a salvare un giusto. Il potere da sempre è costretto a fare il male anche se non lo vuole e, per lo più, è impossibilitato a fare il bene anche se lo vuole. È schiavo del male, che si identifica con il “possesso” di cose, di persone e di Dio. Il potere deve obbedire al dèmone del possedere, altrimenti perde se stesso.
Grazie ai giochi traversi e perversi dei potenti, Paolo darà testimonianza del suo Signore, oltre che davanti al Sinedrio, anche davanti a governatori e re. Alla fine giungerà al centro del potere romano, così diverso da quello del Re dei Giudei rivelatosi sul Calvario. Mentre i potenti crocifiggono, Dio è il crocifisso. Il potere dell’uomo è dare la morte a tutti; quello di Dio è dare la vita per tutti. Alla fine il potere del male, che toglie la vita al Giusto, esegue il disegno di Dio: dare la propria vita a chi gliela toglie. È questa la vittoria del bene sul male, trionfo dell’amore sull’egoismo e della vita sulla morte.
È proprio vero quanto dice a Dio la prima comunità di credenti dopo la prima persecuzione: “Davvero in questa città (Gerusalemme) si riunirono le genti e i popoli di Israele per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano predefinito che avvenisse” (Atti 4,27s). Dio non “pre-ordina” (come spesso si traduce), bensì “pre-definisce” il male: gli dà una fine, un limite e un contorno che ingloba nel suo disegno di salvezza universale. Lo stesso Caifa, essendo sommo sacerdote, profetizzò senza volerlo il senso della morte di Gesù: “ È meglio che un solo uomo muoia per il popolo piuttosto che perisca la nazione intera (Gv 11,50). Dio sa riscattare e volgere al bene ogni male (cf. Rm 8,28; 5,20). È come se io facessi uno sgorbio e un odierno Picasso lo completasse in un suo schizzo facendone un’opera d’arte. Quello che è capitato al Maestro,capita anche ai discepoli, assimilati a lui nel suo stesso Spirito. Mentre essi capiscono questo mistero, all’improvviso lo Spirito riempie e scuote il Cenacolo (At 4,22). È un’ulteriore Pentecoste, necessaria per leggere l’azione di un “Dio sempre presente” nelle contraddizioni sempre presenti. Così la nostra storia diventa ogni giorno storia di salvezza. La persecuzione scuote l’albero - l’albero della vita è la croce- per spargerne la semente dappertutto, nel mondo intero.
La spedizione è preparata senza badare a spese (vv 22-24). I congiurati sono capaci di tutto e bisogna procedere con somma cautela, coperti dalla notte e da una grande scorta. Paolo è trasferito da Gerusalemme a Cesarea “in massima sicurezza”. Allo stesso modo, pure di notte, il suo Maestro era stato condotto dal Getsemani a Gerusalemme (cf Lc 2252;Mc 14 44b; Gv 18,3).
Il corpo centrale del testo è la lettera a Felice, che espone con precisione la situazione di Paolo (vv. 25-30). Egli ha fatto nulla contro la legge romana. Volevano linciarlo per fanatismo religioso. Con fatica Lisia l’ha liberato e ha poi scoperto che è cittadino romano. Informato del complotto contro di lui, non vuole che il processo abbia luogo nel Sinedrio. Per questo lo invia a Cesarea, dal governatore che potrà liberarlo senza pericolo di tafferugli, che invece con facilità sarebbero esplosi a Gerusalemme.
L’imponente convoglio militare - è una mezza coorte, come con Gesù (cf.Gv 18,3 e Lc 22,47) - parte subito appena calata la notte (vv. 31-35). Al mattino, giunto fuori pericolo, prosegue con i soli cavalieri fino a Cesarea. Qui consegnano Paolo e la lettera a Felice. Questi ordina di custodirlo in prigione, in attesa di ascoltarlo davanti ai suoi accusatori.
Paolo vivrà e viaggerà, innocente e prigioniero, in attesa di compiere sino alla fine la sua missione di testimoniare il suo Signore davanti a tutti. Con questo episodio parte il cammino di testimonianza del Vangelo fino alle estremità della terra. Paradossalmente i costi sono a carico del massimo potere mondiale. Sarà però Paolo a pagarne il prezzo con la sua vita. Lui è prigioniero; ma “ la parola del vangelo non è legata” (2 Tm 2,9). La persecuzione stessa è il veicolo che ne dissemina dappertutto la libertà. Chi calpesta un fiore maturo, ne sparge i semi tutto attorno.






DIVISIONE
a. vv. 22-24: preparazione della spedizione armata
b. vv. 25-30: lettera del tribuno al governatore Felice
c. vv. 31-35: spedizione e consegna di Paolo al governatore romano

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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 1 dicembre 2014
Commento a Atti 23, 12- 35

Il voto a Dio uccidere Paolo

È l’ultimo giorno di Paolo a Gerusalemme. La sezione da 23,12 a 26,32 racconta la sua lunga vicenda processuale. Tradotto da Gerusalemme a Cesarea, Paolo da qui comincerà il suo viaggio per Roma. Nel non breve frattempo avrà l’occasione di testimoniare davanti a governatori (Felice: At 24,1ss; Festo: At 25,1-12) e a re (Agrippa e Berenice: At 25,13-26-32). Anche l’intera vita pubblica di Gesù fu un costante processo da parte delle autorità, con la condanna a morte già decisa dall’inizio (cf. Mc 2,7; 3,6).
Nel processo contro Paolo risplende la sua mitezza. Come già aveva fatto prima di lui il suo Maestro, non risponde ad accuse e offese. Ma mentre il Signore taceva, Paolo invece parla. Infatti deve testimoniare con franchezza la salvezza che il silenzio di Gesù ci ha portato.
All’origine dell’arresto di Paolo c’era l’accusa di profanatore del tempio: vi avrebbe introdotto il pagano Tròfimo. Anche Gesù fu accusato di voler distruggere il tempio (Mc 15,19).
Nella sua apologia Paolo prova la propria innocenza. Lui risulta miglior giudeo dei rappresentanti ufficiali del giudaismo, sia sul piano personale che teologico. E Dio stesso lo ispira e protegge.
Inoltre la sua difesa prova che la fede cristiana non ha colpe nei confronti di Israele e tantomeno nei confronti della legge romana.
Il cristianesimo ha quindi la stessa liceità della religione giudaica- riconosciuta come “religio licita”. Ne è anzi il suo compimento, secondo la promessa fatta ad Abramo e ribadita dai profeti.
Paolo, come si è “fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli”, sa farsi “tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1Cor 9,22). Infatti anche con i potenti sa trattare alla grande: il governatore Felice si interesserà di Gesù e il re Agrippa dirà quasi quasi di essere convinto a farsi cristiano. Cristo è davvero “il salvatore del mondo” (Gv 4,42).
Il suo processo davanti al Sinedrio è finito in putiferio, con pericolo di linciaggio. Il giorno dopo più di quaranta “zelanti” fanno voto di ucciderlo e organizzano una trappola. Propongono al tribuno di farlo convocare di nuovo per valutare meglio la sua causa. In questo modo avrebbero avuto l’opportunità di ucciderlo nel tragitto dal pretorio al Sinedrio. Per tre volte in dieci versi si menziona questa congiura. L’ostilità e accanimento dei correligionari contro Paolo fa da contrappunto alla cordialità e correttezza dei Romani, che garantiscono diritto e giustizia. Ovviamente lo scopo di Luca è di ingraziarseli. È meglio non provocare l’inimicizia dei potenti! La forte animosità dei Giudei contro Paolo sono una conferma di quanto gli fu detto in estasi dal Signore: “Affrettati ed esci presto da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza” (22,18).
I giudeocristiani di Gerusalemme si sono eclissati. Per loro non è prudente esporsi e rompere quella pace, proficua e feconda, con i Giudei. Si può però supporre l’interessamento di Luca e compagni che sono andati con lui a Gerusalemme e lo accompagneranno nel fortunoso viaggio verso Roma (cf. 21,17 e 27,1).
A venire in aiuto di Paolo sarà un suo nipote di Gerusalemme, che è venuto a sapere della congiura. Per il resto, nel momento decisivo, Paolo è solo. La sua solitudine è come quella di Gesù, catturato e abbandonato da tutti. Il “giovinetto” che informa e poi scompare, ricorda quello di Mc 14,51s (forse firma dell’autore). Tra l’altro Marco stesso fu con Paolo e lo lasciò (At 13,13).
Il voto a Dio dei quaranta fervorosi farisei di non mangiare né bere finché non avessero ucciso Paolo richiama la connessione strettissima tra violenza e sacro. L’argomento merita una considerazione. Sempre si è ucciso e si ucciderà in nome di dio, patria e famiglia (leggi danaro, potere e valori innegoziabili), oppure in nome dell’ideologia (“divina” anche se sostenuta da atei!) di fraternità, libertà ed eguaglianza.
La vita, bene supremo e supporto di ogni altro, è inviolabile da parte dell’uomo. Nessuno è padrone della vita propria, tanto meno di quella altrui. Per uccidere si ricorre a una presunta legittimazione di Dio, origine della vita. Le guerre peggiori sono quelle a motivazione religiosa - come quelle dell’Islam che si diffuse (e si diffonde) con guerre sante. Lo stesso vale per la risposta delle crociate o le guerre tra protestanti e cattolici che devastarono l’Europa dal 1559 (pace di Chateau Cambrésis) al 1648 (pace di Westfalia). Non meno disastrose furono quelle a copertura ideologica del nazismo, del fascismo e del comunismo, per tacere dello sterminio sistematico degli indiani dell’America del nord e del colonialismo in genere. La storia, da Caino in poi, è una catena di violenza che ci lega e trascina tutti nella morte. Anche oggi assistiamo in Medio Oriente a una guerra mondiale “a rate”, dove il detonatore della violenza è sempre religioso. Se si guarda più a fondo però la religione è solo il manto di cui si veste la violenza. La sua (ir)realtà viene dal “dio di questo mondo”, il danaro, o meglio la borsa, che promette potere su tutto e tutti.
Uccidere in nome di Dio è il massimo crimine: nega l’essenza di Dio e dell’uomo. Dio non è “padrone della vita”, con “jus utendi et abutendi” fino a distruggerla. Questo dio in realtà è satana, che proietta la propria immagine su di lui. Dio non può togliere o distruggere la vita. Lui è datore di vita: la dona e la per-dona di continuo, perché Dio è tutto e solo amore. Il dio che distrugge i cattivi è quello che vorrebbe Giona, prototipo di ogni persona “religiosa”. Perché Dio non annienta la grande città di Ninive, simbolo di ogni male? Con mortale angoscia Giona rimprovera Dio di essere “misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che si lascia impietosire” (cf Gn 4,1ss). Pare che il profumo che delizia il “religioso” sia il fumo d’arrosto degli empi.
Bisogna che tutte le persone “religiose”, anche ciellini e mussulmani, comincino a non disonorare Dio, facendone una maschera diabolica e una siepe che divide dagli altri. Questa siepe di zelo è sempre pronta a incendiarsi per mettere l’altro a ferro e fuoco - fuoco quando possibile, altrimenti ferro Da tale zelo focoso non sono esenti né il profeta Elia con il suo discepolo Eliseo, né l’apostolo Giacomo con suo fratello Giovanni (cf 1 Re 18,40; 1Re 1,10; Lc 9,54). Pietro a sua volta si accontenta di tagliare orecchi (Mc 14,47).
Paolo stesso, prima di dell’incontro di Damasco, vuole sterminare tutti i cristiani in nome di Dio (At 9,1ss).
E che dire dei roghi della nefanda, o meglio“Santa”, Inquisizione” con i suoi roghi arcaici e sempre attuali? Ci troviamo davanti alla più grande bestemmia contro il Dio rivelatosi in Gesù. E viene proprio da coloro che dovrebbero conoscerlo e amarlo. Addirittura si usa il nome della Santissima Trinità per condannare fratelli. Nel verdetto del processo contro il “Corvo” si legge: “Sua Santità (omissis) felicemente regnante, in nome della santissima Trinità (omissis) ti condanna (omisssis), ecc. …”. E non siamo in epoca dinosaurica o medievale! Il fatto è di due anni orsono Il tragico è che i suoi autori sono purtroppo in buona fede (?). Anzi, hanno agito a fin di bene, per conservare la sacra, o meglio esecranda, tradizione. Gesù direbbe loro ciò che disse ai farisei: “Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione” (leggi Mc 7,1-23).
La stupidità del potere - anzi dell’amore del potere - è madre di violenza. Si conserva e prospera in perfetta (in)coscienza, spudorata e paludata di sacralità divina.
Ammiro sant’Ambrogio di Milano soprattutto perché, invece di usare il potere dell’imperatore per arrostire eretici, scomunicò l’imperatore Massimo perché aveva ucciso a Treviri l’eretico Priscilliano.
“Il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra i pagani”, dice Paolo ai cristiani di Roma (Rm2,24), citando Isaia 52,5 ed Ezechiele 36,20,22.
È veramente mirabile come Dio porti avanti il suo disegno utilizzando tutte le contraddizioni al suo disegno (leggi Rm 11,25-36!). Paolo infatti testimonierà a Roma, come il Signore gli ha predetto, grazie a complotti di nemici e a ignavia di giudici.
A pensarci bene, non solo tutta l’attività di Paolo, ma anche quella del suo Signore è stata segnata da queste caratteristiche. Come è proprio dell’uomo fare il male con il bene, è proprio di Dio indirizzare il nostro male al bene. È quanto dice Giuseppe ai suoi fratelli: “ Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gen 50,20).
Nel tessuto della storia la nostra miseria è la trama e la misericordia di Dio l’ordito. La chiave che ne apre il mistero è la croce, dove il massimo male diventa il massimo bene. Il rotolo della vicenda umana, scritto dentro è fuori, è chiuso da sette sigilli che nessuno può aprire. Lo può aprire solo “l’agnello ritto e immolato”, risorto perché crocifisso (Ap 5,1ss). È quanto scopre la chiesa apostolica dopo la prima persecuzione: “Davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo santo servo Gesù che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e i popoli di Israele, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano predefinito che avvenisse”(At 4,27s).
Il male c’è. La storia è un brutto dramma fatto dall’uomo. E Dio non è estraneo: lo vive in prima persona. Ed è Signore sul male perché è “l’Agnello di Dio che porta su di sé il peccato del mondo” (Gv 1,29). Questo ci fa vedere la storia come salvezza dalla perdizione. Infatti il male ci apre gli occhi sull’essenza di Dio e dell’uomo: Dio è amore infinito e l’uomo infinitamente amato. Secondo “il grande Hallel” il perché primo e ultimo di tutta la creazione e di tutta la storia è l’eterna misericordia di Dio che si riversa sull’abisso di ogni miseria (leggi Sal 136).Davvero “laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia”! (Rm 5,20).





DIVISIONE
a. vv..12-15: congiura e complotto per uccidere Paolo
b. vv. 16-17: il nipote informa Paolo del complotto e Paolo il centurione
c. vv18-21: il centurione introduce il giovinetto dal tribuno
d. v. 22: resti segreta l’informazione!

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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 24 novembre 2014
Commento a Atti 23, 6 - 11

Bisogna che tu anche in Roma testimoni

Giustamente si dice che il Vangelo di Marco è un racconto della passione con una lunga introduzione. È dalla fine che si capisce il principio! Questo vale, in modi diversi ,anche per gli altri Vangeli. Sono infatti nati attorno alla mensa eucaristica per farci conoscere quel Gesù che compie la sua missione con il dono della propria vita. Lui stesso è quel “corpo dato per noi”, che siamo invitati a “mangiare” e assimilare nella nostra vita quotidiana.
Questo vale anche per gli “Atti degli apostoli”, che raccontano come i discepoli continuano a fare e a dire ciò che il Maestro “cominciò a fare e a dire” per vivere di lui ed essere come lui.
Questi ultimi capitoli ci presentano come Paolo “incarna” Gesù, testimoniandolo nella sua passione. È immagine di tutti i discepoli che, con la loro vita, saranno suoi testimoni“fino all’estremità della terra”. In Paolo - erede diretto del protomartire Stefano! - vediamo il compimento della missione del discepolo diventato simile al suo Maestro.
Se i racconti della passione/risurrezione di Gesù hanno spazio adeguato nel periodo pasquale, il finale degli Atti è poco letto nella liturgia. Eppure è il culmine della rivelazione di Dio che, compiuta in Gesù, continua a compiersi nella storia dei suoi discepoli. La Chiesa, lungi dall’essere un apparato statico, è il cammino del Vivente che si rivela di continuo in ciò che succede a chi lo segue.
La storia del Crocifisso risorto non è passata una volta per sempre: apre ora e sempre il nostro presente al suo futuro. La storia del discepolo è un presente in cui il passato di Gesù giunge al compimento del futuro suo e di Dio stesso, che è “tutto in tutte le cose” (1Cor 15,28).
Questi capitoli degli Atti dovrebbero esserci cari come il mistero della morte e risurrezione del Signore. La Pasqua celebrata nell’eucaristia deve realizzarsi nella quotidianità della nostra vita, unico luogo in cui Dio va creando “cieli nuovi e terra nuova” (2Pt 5,13). Il vero culto spirituale infatti è il nostro corpo stesso che si trasfigura e rinnova a immagine di quello di Gesù (cf. Rm 12,1ss).
“È proprio nel prendere sul serio i piccoli fatti dell’esistenza che si consuma la vera passione di Paolo, così come, spesso, le nostre. Questo racconto che una volta letto sembra non aver più nulla da dire, in realtà è parola di Dio in cui sostare, così come per Paolo l’andare per tribunali e avvocati, il fare i conti con una burocrazia sciocca e con la corruzione e meschinità dei capi, il pagare cauzioni, e così via, è il modo per stare nella volontà di Dio, è il suo vero martirio. Le vicende di Paolo sono le stesse che leggiamo quotidianamente sui giornali. […] Il mondo va sempre allo stesso modo e non c’è niente di interessante, ma è lì che siamo chiamati a essere testimoni. Bisogna fare i conti con la noia, il vuoto, l’impotenza, lo stare “in gabbia”. Un uomo lanciato a livello internazionale come Paolo, che in pochi anni ha fatto migliaia di chilometri, per terra e per mare, è bloccato da un burocrate che non vuole prendere una decisione, perché ha i suoi piccoli interessi” (PAOLO BIZZETI, Fino ai confini estremi. Meditazioni sugli Atti degli Apostoli, Bologna (EDB) 2008, pp. 355-356).
In 22,22-30 si prepara la lunga via crucis di Paolo. La folla, per la seconda volta nello stesso giorno, vuol linciarlo. Ma il tribuno interviene per mantenere la legalità. Vuole però torturarlo. La violenza sull’altro è il mezzo usuale per ottenere e mantenere il potere. Si maschera però sempre, travestendosi da mezzo per scoprire la verità. Ma appena il tribuno sa che Paolo è cittadino romano, è preso da paura. Come il Sinedrio consegnò il Maestro nelle mani dei romani, ora il tribuno romano consegna Paolo al Sinedrio.
Così comincia il suo cammino di prigioniero per Cristo. Come lo testimoniò a Giudei e Greci, ora lo testimonierà davanti al Sinedrio, poi al governatore romano Felice e al re Agrippa, per giungere infine a Roma davanti al tribunale di Cesare.
In 23,1-11 Paolo si autopresenta al Sinedrio come Giudeo fedele, della setta dei farisei. Il Cristianesimo da lui professato è una “religio licita”. Come tutti i farisei, Paolo crede nella risurrezione dai morti. Questa è la speranza definitiva della promessa di Dio, che lui vede già realizzata in Cristo e anticipata nella vita nuova di chi lo segue (cf. ad esempio Rm 6,1ss.) Qui sta la continuità e la novità tra Cristianesimo e Giudaismo - fanatici a parte.
Il discorso di Paolo è un confronto tra cristianesimo e giudaismo, che tocca il centro della fede cristiana: la risurrezione di Gesù e nostra in lui. Le differenze tra cristiani e Giudei sono minori di quelli tra farisei e sadducei. Un fariseo coerente accetterebbe la visione di Paolo e quindi anche Cristo.
Per Paolo il rifiuto a priori di Gesù come Cristo è rifiuto anche della speranza d’Israele. Il vero Giudeo crede alla promessa da Ml 3,1-5, dove l’angelo del Signore viene a purificare il Tempio e i cuori per la venuta del Signore. Inoltre crede che lo Spirito farà risorgere il popolo (cf. Dn 12,2s; 2Mac 7,1ss; Ez 37,1ss), proprietà del Dio vivente (Ml 3, 17; cf. 1Re 8, 51; Sal 32, 12; Is 19, 25). Sull’argomento leggi Mc 11,-27 e 1Cor 15,1ss).
Paolo gioca la sua vita su questa che è la speranza d’Israele. Ma è disprezzato come tutti i profeti. Il Signore però lo approva: “Abbi coraggio! Come infatti testimoniasti le cose che mi riguardano a Gerusalemme, così ‘bisogna’ che tu anche in Roma testimoni”. Gesù in persona, come aveva predetto la propria passione, predice ora quella di Paolo: il discepolo ‘bisogna’ che sia aggregato al suo mistero di morte e risurrezione. Come si vede, Paolo sa cosa gli accadrà. Ma non è passivo o schiacciato: tiene testa ai nemici a testa alta. Come il suo Maestro, sarà ucciso per la verità che afferma con la vita. Paolo passerà buona parte del resto della sua vita in prigionia (anni 58-63) e infine subirà l’esecuzione capitale (anno 67), qui già invocata dalla folla. Sarà il periodo più fecondo del suo ministero. Gesù stesso compì tutto il suo ministero sotto l’ipoteca della condanna a morte, già profilatasi fin dall’inizio (cf. Mc 2,7: “costui bestemmia”) e decisa poco dopo da farisei ed erodiani ( Mc 3,6). C’è stretta connessione tra il ministero della Parola e la passione di chi la annuncia. Leggi quanto scrive Paolo in 2 Cor 11,1-12,10 ( cf anche Col 1,24: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” e 2 Cor 4,12: “In noi opera la morte, ma in voi la vita”).
Anche Gesù non ci ha salvati con la sua azione, ma con la sua passione. È quanto afferma Matteo alla fine della sezione dei miracoli: “Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie ( Mt 8,17= Is 53,4).




DIVISIONE
a. vv. 22,22-24: reazione all’apologia di Paolo
b. vv. 25-29: Paolo cittadino romano si appella alla legalità
c. v. 30: Paolo è condotto davanti al Sinedrio
d. vv. 23,1-5: Paolo agisce in coscienza davanti a Dio: per questo è colpito come i profeti
e. vv. 6-10: l’apologia di Paolo, testimone della risurrezione, spacca in due il Sinedrio
f. v. 11: ‘bisogna’ che Paolo, come a Gerusalemme, testimoni anche Roma

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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 17 novembre 2014
Commento a Atti 22, 30 - 23, 3

Bisogna che tu anche in Roma testimoni

Giustamente si dice che il Vangelo di Marco è un racconto della passione con una lunga introduzione. È dalla fine che si capisce il principio! Questo vale, in modi diversi ,anche per gli altri Vangeli. Sono infatti nati attorno alla mensa eucaristica per farci conoscere quel Gesù che compie la sua missione con il dono della propria vita. Lui stesso è quel “corpo dato per noi”, che siamo invitati a “mangiare” e assimilare nella nostra vita quotidiana.
Questo vale anche per gli “Atti degli apostoli”, che raccontano come i discepoli continuano a fare e a dire ciò che il Maestro “cominciò a fare e a dire” per vivere di lui ed essere come lui.
Questi ultimi capitoli ci presentano come Paolo “incarna” Gesù, testimoniandolo nella sua passione. È immagine di tutti i discepoli che, con la loro vita, saranno suoi testimoni“fino all’estremità della terra”. In Paolo - erede diretto del protomartire Stefano! - vediamo il compimento della missione del discepolo diventato simile al suo Maestro.
Se i racconti della passione/risurrezione di Gesù hanno spazio adeguato nel periodo pasquale, il finale degli Atti è poco letto nella liturgia. Eppure è il culmine della rivelazione di Dio che, compiuta in Gesù, continua a compiersi nella storia dei suoi discepoli. La Chiesa, lungi dall’essere un apparato statico, è il cammino del Vivente che si rivela di continuo in ciò che succede a chi lo segue.
La storia del Crocifisso risorto non è passata una volta per sempre: apre ora e sempre il nostro presente al suo futuro. La storia del discepolo è un presente in cui il passato di Gesù giunge al compimento del futuro suo e di Dio stesso, che è “tutto in tutte le cose” (1Cor 15,28).
Questi capitoli degli Atti dovrebbero esserci cari come il mistero della morte e risurrezione del Signore. La Pasqua celebrata nell’eucaristia deve realizzarsi nella quotidianità della nostra vita, unico luogo in cui Dio va creando “cieli nuovi e terra nuova” (2Pt 5,13). Il vero culto spirituale infatti è il nostro corpo stesso che si trasfigura e rinnova a immagine di quello di Gesù (cf. Rm 12,1ss).
“È proprio nel prendere sul serio i piccoli fatti dell’esistenza che si consuma la vera passione di Paolo, così come, spesso, le nostre. Questo racconto che una volta letto sembra non aver più nulla da dire, in realtà è parola di Dio in cui sostare, così come per Paolo l’andare per tribunali e avvocati, il fare i conti con una burocrazia sciocca e con la corruzione e meschinità dei capi, il pagare cauzioni, e così via, è il modo per stare nella volontà di Dio, è il suo vero martirio. Le vicende di Paolo sono le stesse che leggiamo quotidianamente sui giornali. […] Il mondo va sempre allo stesso modo e non c’è niente di interessante, ma è lì che siamo chiamati a essere testimoni. Bisogna fare i conti con la noia, il vuoto, l’impotenza, lo stare “in gabbia”. Un uomo lanciato a livello internazionale come Paolo, che in pochi anni ha fatto migliaia di chilometri, per terra e per mare, è bloccato da un burocrate che non vuole prendere una decisione, perché ha i suoi piccoli interessi” (PAOLO BIZZETI, Fino ai confini estremi. Meditazioni sugli Atti degli Apostoli, Bologna (EDB) 2008, pp. 355-356).
In 22,22-30 si prepara la lunga via crucis di Paolo. La folla, per la seconda volta nello stesso giorno, vuol linciarlo. Ma il tribuno interviene per mantenere la legalità. Vuole però torturarlo. La violenza sull’altro è il mezzo usuale per ottenere e mantenere il potere. Si maschera però sempre, travestendosi da mezzo per scoprire la verità. Ma appena il tribuno sa che Paolo è cittadino romano, è preso da paura. Come il Sinedrio consegnò il Maestro nelle mani dei romani, ora il tribuno romano consegna Paolo al Sinedrio.
Così comincia il suo cammino di prigioniero per Cristo. Come lo testimoniò a Giudei e Greci, ora lo testimonierà davanti al Sinedrio, poi al governatore romano Felice e al re Agrippa, per giungere infine a Roma davanti al tribunale di Cesare.
In 23,1-11 Paolo si autopresenta al Sinedrio come Giudeo fedele, della setta dei farisei. Il Cristianesimo da lui professato è una “religio licita”. Come tutti i farisei, Paolo crede nella risurrezione dai morti. Questa è la speranza definitiva della promessa di Dio, che lui vede già realizzata in Cristo e anticipata nella vita nuova di chi lo segue (cf. ad esempio Rm 6,1ss.) Qui sta la continuità e la novità tra Cristianesimo e Giudaismo - fanatici a parte.
Il discorso di Paolo è un confronto tra cristianesimo e giudaismo, che tocca il centro della fede cristiana: la risurrezione di Gesù e nostra in lui. Le differenze tra cristiani e Giudei sono minori di quelli tra farisei e sadducei. Un fariseo coerente accetterebbe la visione di Paolo e quindi anche Cristo.
Per Paolo il rifiuto a priori di Gesù come Cristo è rifiuto anche della speranza d’Israele. Il vero Giudeo crede alla promessa da Ml 3,1-5, dove l’angelo del Signore viene a purificare il Tempio e i cuori per la venuta del Signore. Inoltre crede che lo Spirito farà risorgere il popolo (cf. Dn 12,2s; 2Mac 7,1ss; Ez 37,1ss), proprietà del Dio vivente (Ml 3, 17; cf. 1Re 8, 51; Sal 32, 12; Is 19, 25). Sull’argomento leggi Mc 11,-27 e 1Cor 15,1ss).
Paolo gioca la sua vita su questa che è la speranza d’Israele. Ma è disprezzato come tutti i profeti. Il Signore però lo approva: “Abbi coraggio! Come infatti testimoniasti le cose che mi riguardano a Gerusalemme, così ‘bisogna’ che tu anche in Roma testimoni”. Gesù in persona, come aveva predetto la propria passione, predice ora quella di Paolo: il discepolo ‘bisogna’ che sia aggregato al suo mistero di morte e risurrezione. Come si vede, Paolo sa cosa gli accadrà. Ma non è passivo o schiacciato: tiene testa ai nemici a testa alta. Come il suo Maestro, sarà ucciso per la verità che afferma con la vita. Paolo passerà buona parte del resto della sua vita in prigionia (anni 58-63) e infine subirà l’esecuzione capitale (anno 67), qui già invocata dalla folla. Sarà il periodo più fecondo del suo ministero. Gesù stesso compì tutto il suo ministero sotto l’ipoteca della condanna a morte, già profilatasi fin dall’inizio (cf. Mc 2,7: “costui bestemmia”) e decisa poco dopo da farisei ed erodiani ( Mc 3,6). C’è stretta connessione tra il ministero della Parola e la passione di chi la annuncia. Leggi quanto scrive Paolo in 2 Cor 11,1-12,10 ( cf anche Col 1,24: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” e 2 Cor 4,12: “In noi opera la morte, ma in voi la vita”).
Anche Gesù non ci ha salvati con la sua azione, ma con la sua passione. È quanto afferma Matteo alla fine della sezione dei miracoli: “Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie ( Mt 8,17= Is 53,4).




DIVISIONE
a. vv. 22,22-24: reazione all’apologia di Paolo
b. vv. 25-29: Paolo cittadino romano si appella alla legalità
c. v. 30: Paolo è condotto davanti al Sinedrio
d. vv. 23,1-5: Paolo agisce in coscienza davanti a Dio: per questo è colpito come i profeti
e. vv. 6-10: l’apologia di Paolo, testimone della risurrezione, spacca in due il Sinedrio
f. v. 11: ‘bisogna’ che Paolo, come a Gerusalemme, testimoni anche Roma

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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 20 ottobre 2014
Commento a Atti 21, 37 - 22, 16

Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato

È la prima delle quattro apologie di Paolo. Questa è davanti alla folla e le altre tre rispettivamente davanti al sinedrio (22,30-23,11), a Felice ( 24,10-21) e al re Agrippa (26,2-23). È anche la prima volta negli Atti che Paolo racconta la sua esperienza di Damasco, già descritta in At 9,1-19. Paolo ha già ampiamente realizzato la sua missione di portare il nome di Gesù tra pagani e Giudei, preconizzata ad Anania in At 9,15. In questa apologia, rivoltai giudei che vogliono ucciderlo, Paolo parla di se stesso come persecutore di cristiani e convertito a Cristo. La sua esperienza è esemplare per chi lo ascolta: il popolo della promessa, che lo perseguita, è chiamato come Paolo a realizzare la sua missione di luce delle genti e accoglienza di tutti i popoli.
Si tratta di un’autodifesa. Astraendo dalle accuse mossegli, evidentemente false per il lettore, Luca è preoccupato di giustificare attraverso Paolo una Chiesa di expagani, che non osservano la Torah e le sacre istituzioni. “L’apostolo delle genti”, non ha tradito la fede di Israele. Anzi, era zelante, come e più di tutti per la legge. Ma ha ricevuto da Dio l’ordine di estendere a tutti la promessa fatta ad Abramo: “In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3).
L’Apostolo si trova innanzi a una folla di Giudei. Pieni di zelo per Dio, vogliono linciarlo. Si rispecchia in loro. Anche lui era presente al martirio di Stefano, custodendo i mantelli di chi lo lapidava. Ciò che vogliono fare a lui è proprio ciò che lui voleva fare a tutti i cristiani: mosso dal loro stesso zelo per Dio, voleva sterminarli tutti.
Questi Giudei, come Paolo, amano con grande zelo la legge, e in nome di Dio vogliono ammazzare. Qui affiora con chiarezza un iceberg contro il quale si incaglia ogni “religione” di ogni tipo. Il nome di questo iceberg è “l’amore della verità”. In suo nome si uccide l’uomo come si uccise il Figlio dell’uomo. Da qui scaturiscono roghi, condanne, esclusioni e stermini. “L’“ortodossia” di chi ama la verità richiama la fede dei demoni, che “credono e tremano”, dice Gc 2,19.
“La verità dell’amore” invece fa conoscere Dio e salva l’uomo. “Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,8). Solo l’amore genera comprensione, dono, perdono e apertura verso tutti.
Se “l’amore della verità” è sotto la sovranità di satana e della morte, “la verità dell’amore” è il regno del Dio della vita.
Il discorso di Paolo ai suoi “fratelli”trabocca di sapienza e tenerezza. Anche lui era un fervente Giudeo, nato a Tarso e cresciuto a Gerusalemme con il grande maestro Gamaliel, di cui la Mishna (Sot. 9,15) dice: “Da quando è morto Rabban Gamaliel il Vecchio, non c’è stata più venerazione per la legge, e purità e temperanza sono scomparse allo stesso tempo”.
Anche Saulo ha seguito la legge e le tradizioni dei padri in modo “irreprensibile” (Fil 3,6). Aveva la stessa purità del suo maestro, ma non la sua temperanza. Gamaliel infatti osò difendere i Dodici davanti al Sinedrio (At 5,34). Ma la folgorazione di Damasco gli aprì gli occhi: Gesù è il compimento delle promesse, luce per illuminare le genti e gloria del popolo di Israele (Lc 2,32; Is 42,6; 49,6; cf. Gen 12,3).
La sua vocazione a evangelizzare tutti gli uomini, predetta a Damasco al pio giudeo Anania, gli fu confermata dal Giusto, sofferente e glorificato. Infatti lo vide mentre era in estasi nel tempio, (v. 18 cf. 15,8) e ricevette da lui l’ordine: “Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani” (v.31).
Ciò che fa problema ai Giudei è la convivenza con i pagani. È ciò che fece problema anche a Pietro e ai primi Giudei cristiani (cc.10-11).
La questione fu affrontata nel c. 15 a Gerusalemme. Si trovò una soluzione che permettesse a cristiani giudei e pagani di sedere alla stessa mensa. Il Giudeo non è tenuto a rinunciare alle sue tradizioni e il pagano non è tenuto ad osservarle – se non in ciò che è necessario per vivere da fratelli. Valore supremo è l’amore. Esso esige l’accettazione, non la soppressione dell’altro nella sua diversità, quand’anche erronea (cf 1 Cor 8,13). Il motivo di carità prevale nell’azione su quello di verità, pur affermando la verità. Chi agisce in nome della verità (che tra l’altro è la libertà dai principi della tradizione) non dimentichi mai 1Cor 8,1ss. Infatti la scienza gonfia,mentre la carità edifica (1Cor 8,2): ci fa passare dall’amore di sé a quello dell’altro.
Iniziato il suo “viaggio a Gerusalemme”, a partire da Mileto Paolo istruisce non tanto annunciando il Cristo, quanto “testimoniandolo”. Lui stesso è assimilato a Cristo e diventa testimonianza “non a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1Gv 3,18).
Dall’alto dei gradini della prigione - “predellino” adeguato davanti alla scalinata che porta al Tempio - Paolo vuol convincere il popolo a fare il passo che anche lui ha fatto: riconoscere nel Giusto perseguitato la Gloria di Dio che salva il mondo.
Come dal martirio di Stefano è nato Paolo, Paolo spera che pure la sua testimonianza sia feconda. La trasformazione avvenuta in lui, cieco e ostinato persecutore in nome di Dio, può avvenire anche in chi perseguita lui. Il cristianesimo non è contro il giudaismo. Ne è uno sviluppo legittimo. È addirittura il suo compimento. Era già prevista l’ora in cui “si dirà di Sion: ‘L’uno e l’altro è nato in essa e l’Altissimo la tiene salda’ ”. Allora tutti danzando canteranno : “Sono in te sono tutte le mie sorgenti”. ( Sal 87,5.7).
Paolo in questa apologia davanti a Giudei “zelanti” si mostra come un giudeo osservante che ha visto nel Giusto glorificato il compimento delle promesse. Lui non è infedele. Ha obbedito alla sua vocazione, scaturita nel tempio stesso. Non è una vocazione strana: è la vocazione stessa del Servo di Dio ad essere “luce delle genti” (Is 42,6; Lc 2,30-32) e portatore di salvezza da Israele fino agli estremità della terra (Is 49,6; At 1,8).




DIVISIONE
 a. 21,37-39: Paolo, giudeo, chiede di parlare al popolo
 b. 22,1-21: apologia di Paolo
    I.  vv.1-2: esordio
    II. vv. 3-16: naratio con probatio:
       i.   vv. 3-5 Paolo zelante e persecutore di cristiani
       ii.  vv. 6-11: evento di Damasco
       iii. vv. 12-16: Paolo testimone presso tutti gli uomini
    III. vv. 17-21: refutatio/argomentatio
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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 20 ottobre 2014
Commento a Atti 21, 17-36

A morte! - Principio della passione di Paolo

Paolo e compagni arrivano a Gerusalemme e sono accolti con piacere dai fratelli che si ritrovano nel Cenacolo. Il Cenacolo, culla del cristianesimo, è la casa di Maria, madre di Giovanni detto anche Marco (12,12). lì Gesù celebrò l’ultima cena (Lc 22,7-38) e apparve Risorto ai discepoli, da lì partì per salire al cielo e lì inviò lo Spirito promesso (Lc 24,33-53= At 1,1-2,1ss). È il luogo reale e simbolico in cui si compie la benedizione di Dio ad Abramo e in lui a tutte le genti (Gen 12,1-3). Da lì parte e lì porta ogni missione. È la Chiesa madre, l’Israele che si apre a tutte le genti.
Solo il giorno dopo vanno da Giacomo, capo della Chiesa di Gerusalemme. Già da Atti 12,16 sappiamo che Giacomo non sta più nel Cenacolo dove fino allora dimorava anche Pietro. La Chiesa è una, ma nella diversità. Uno può essere perfetto Giudeo e perfetto cristiano, purché accetti i pagani come fratelli e non pretenda di farne dei Giudei. Lo stesso vale per i pagani nei confronti dei Giudei.
In queste diversità culturali come si può convivere e mangiare insieme? La tentazione è quella che ognuno cerchi di mangiare l’altro per assimilarlo a sé. Il problema, mai risolto, resta un cantiere aperto. Lo è anche oggi e lo sarà sempre, fin che il mondo giunga al suo compimento.
Comunque il principio del bene e del male non sta e non starà mai in ciò che si mangia. Ognuno faccia come crede meglio. Sappia però che l’unico principio “culturale” valido per Dio, Padre di tutti, è quello di “mangiare con l’altro”invece di “mangiare l’altro”. “Non c’è più né giudeo (=religioso come noi!) né greco (=pagano o laico), non c’è più né schiavo né libero, non c’è più uomo e donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa” (Gal 3,27-28). Crolla il culto idolatrico e omicida di tutte le regole religiose e culturali che discriminano gli uomini e sono all’origine di ogni male. È nella nostra diversità che siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre. Fin dall’inizio Adamo “uccide” il Padre e Caino uccide il fratello!
La verità più antica, e più trascurata, è che siamo tutti figli chiamati ad accogliere il fratello nella sua diversità. La nostra identità ci viene dall’altro. Se sopprimiamo l’altro, sopprimiamo noi stessi. Per questo va accolta ogni diversità e differenza. Ognuno deve rispettare l’altro, con attenzione al più debole - che talora pare il più forte (cf 1Cor 8,1ss). L’unico comandamento è l’amore, che davanti al male si fa misericordia e perdono (cf Lc 6,36, leitmotiv di tutto del Vangelo). È la “legge di libertà”, dice Giacomo – aggiungendo che “la misericordia ha sempre la meglio nel giudizio” (Gc 2,12s).
La nostra libertà non è la schiavitù dell’egoismo che mette le mani sull’altro. È frutto dell’amore, che ci mette nelle mani dell’altro. Il tentativo di dominare sull’altro è vinto dalla disponibilità a servirci l’un l’altro nel reciproco amore (Gal 5,13ss.). La lettera ai Galati è il più limpido e audace testo sulla libertà. In essa Paolo “relativizza” tutte le diversità religiose, sociali e di genere: le “mette”in relazione” invece che in conflitto. Ogni diversità è un limite nei confronti dell’altra. Questo limite, invece di essere un assoluto - un idolo morto che dà morte - è il con-fine con l’altro, luogo dove due finitudini vengono a contatto.
Chiaramente il mio con-fine è dove finisco io e trovo il mio con-finito. Lì c’è lo scontro tra due finiti per farla finita, oppure l’incontro per aprirsi all’altro. La paura di essere mangiati ci chiude nell’egoismo e fa sì che ci mangiamo reciprocamente, fin che non restano che le code. La fiducia di una sorpresa positiva ci porta ad accoglierci e aprici all’infinito. Il limite diventa comunione e ospitalità reciproca. È l’unico modo per “nutrire il pianeta”.
E qui nasce la “cosa nuova”, ciò che il nostro cuore da sempre desidera e la paura ci vieta: l’unità d’amore, feconda di novità. In questa comunione tra noi “nasce” Dio in noi e noi in lui. Invece di morire per il veleno dell’egoismo, viviamo del frutto dello Spirito. Davvero “diventiamo come Dio”. Abbiamo la sua stessa vita che è l’amore tra Padre e Figlio. Al contrario dell’egoismo, l’amore germoglia in gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e libertà. “ Cristo ci ha chiamati a libertà perché restassimo liberi”; dice Paolo. A quanti cercano di togliere questa libertà in nome di venerande tradizioni, addirittura istituite da Dio stesso, come la circoncisione” (Gal 5, 1-26), Paolo dice che non hanno più nulla a che fare con Cristo: sono decaduti dalla grazia. Ai tradizionalisti che vogliono imporre le loro sacrosante credenze, consiglia, invece di circoncidere sé e altri, di tagliarselo tutto (Gal 5,11).
Sia per motivi logistici che per facilitare la comunione - senza circoncidere altri o mutilare se stessi -, Giacomo si è spostato dal Cenacolo verso un altro luogo.
Paolo, uscito dal Cenacolo, si reca da lui. Il gesto di comunione è anche pretesto per portargli la “colletta” , che qui non viene nominata. Attorno a lui si riunisce l’assemblea di tutti gli anziani. È un’accoglienza pomposa, che si presenta però come un tribunale cui rendere conto di voci che corrono.
Paolo parla dettagliatamente di quanto Dio ha operato tra i pagani. Dopo aver magnificato il Signore, Giacomo ha l’opportunità di esporgli il grande progresso della loro chiesa: sono decine di migliaia i Giudei zelanti della legge che hanno aderito a Cristo.
Viene poi al dunque e, senza mezzi termini, gli dice: “ Sarà mica vero che insegna ai Giudei convertiti l’apostasia dalla legge di Mosè?”. Per smentire queste dicerie e accuse, gli ordina cosa fare: unirsi ad altri cristiani Giudei che devono andare al tempio per un voto. Riguardo poi ai pagani convertiti, bisogna che rispettino le clausole decise insieme a Gerusalemme (cf. At 15,1ss).
La situazione è delicata. Paolo era venuto con la colletta per significare l’unità fraterna tra le chiese pagane e Gerusalemme. Per amor di pace e segno di comunione fa quanto Giacomo richiede. Interpreta in senso buono la sua intenzione: vivere in armonia con i Giudei. Ma se Giacomo dicesse che la salvezza viene dall’osservanza della circoncisione e dalla legge, gli direbbe quanto scrisse ai Galati: “Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia”. E, parlando di circoncisione, concluderebbe così: “È dunque annullato lo scandalo della croce? Dovrebbero tagliarselo via coloro che vi turbano” (Gal 5,4.11b). Solo l‘amore infatti è pieno compimento di ogni legge (Rm 13,10). Chi oltre questa legge di “misericordia” crede che ci sia qualcosa di meglio o più perfetto, è semplicemente uno che perverte l’unico vangelo di Cristo (cf. Gal 2,6s). Luca direbbe che è un cieco, giuda di altri ciechi, casa costruita sulla sabbia che crolla su se stessa (Lc 6,39.49).
Per Paolo è importante la pace e l’unità con la Chiesa di Gerusalemme, come è altrettanto importante che le altre Chiese tengano il collegamento con il popolo della promessa, unico albero in cui tutti siamo inseriti. (cf. Rm 11,1ss).
Paolo fa quanto dice Giacomo, per non crear problemi a lui e alla sua comunità. Giacomo non sapeva che questa visita al tempio poteva diventare per Paolo una trappola mortale? Non era difficile supporlo, date le voci che circolavano su di lui e le infinite volte che hanno tentato di eliminarlo.
Ma ognuno vede solo ciò che ha in testa lui. E Dio, che conosce ogni cuore, si serve anche e soprattutto dei nostri errori per realizzare il suo disegno di salvare tutti. Addirittura “laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5,20).
È comunque per lo meno strano che la Chiesa di Gerusalemme non ne abbia preso le difese nel processo che segue. Non lo ritenevano opportuno per il bene comune: temevano ritorsioni. Certamente si ricordano che già prima la Chiesa, perseguitata a Gerusalemme, fu in pace solo quando Paolo fu rispedito a Tarso (At 9,36s).
Luca qui non accenna più alla colletta (cf. At 24,17). Il viaggio di Paolo a Gerusalemme diventa, come per Gesù, il cammino verso la passione.
Il ricordo del concilio di Gerusalemme ( vv. 19.25) e la sua attuale venuta a Gerusalemme fanno da inclusione ai suoi viaggi missionari: tutta la sua azione tra i pagani è sotto il segno dell’unità tra la chiesa pagano-cristiana e quella giudeo-cristiana.
Come si intravvede dal testo, non mancano tensioni. Infatti in questo periodo Paolo scrive ai Romani: “Ora vi esorto, fratelli, per il Signor nostro Gesù Cristo e per l’amore dello Spirito, a lottare con me presso Dio nelle vostre preghiere per me, affinché io sia liberato dagli infedeli della Giudea, perché il mio servizio per Gerusalemme torni gradito ai santi” (Rm 15, 30s). Probabilmente era caduto sotto l’anatema, ossia era escluso dalla comunità e doveva essere eliminato dai Giudei come nemico di Dio.
Se i cristiani di Gerusalemme non difendano Paolo, Luca parlerà di un suo nipote che accorrerà in suo aiuto (At 23, 6ss).
La preoccupazione di Giacomo non è più la stessa del Concilio di Gerusalemme: aprire la porta della fede ai pagani. Presto ci sarà la diaspora. Il nuovo problema è un altro: come vivranno i giudeo-cristiani tra le nazioni? Dovranno rinunciare alla loro identità (cf 1Cor 7,1ss)?
In questa situazione di conflitto e difficoltà oggettive, Paolo mantiene l’unità con i fratelli. Ciò che ci unisce conta più di ogni differenza e sofferenza.
Come per Gesù, a Gerusalemme e nel tempio, comincia anche per Paolo la lunga passione. Da qui in poi sarà testimone del suo Signore davanti a tribunali e re, fino agli estremi confini della terra. E proprio da prigioniero, perché la Parola non è mai legata! (2Tm 2,9). Dopo il grido della folla: “ A morte”, Paolo sarà prigioniero sino alla fine degli Atti. Si avvera quanto lui stesso aveva detto: “Lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni.” (At 20,23). Si compie anche la profezia di Agabo, che lo vede legato mani e piedi (21,11).
È l’ultima fase del suo ministero, dove la testimonianza diventa perfetta. La morte che incombe non l’arresta. Anzi, ne è il compimento. Anche Gesù fu accusato di bestemmia e condannato fin dall’inizio del suo ministero come trasgressore della legge (cf. Mc 2,6; 3,6). Ma questo non gli ha impedito di fare tutto ciò che doveva fare. È sempre sufficiente il tempo per vivere ciò che si deve vivere. Non né mai né più né meno di quello che ci vuole.




DIVISIONE
a - vv.17-20a: Paolo espone a Giacomo e ai presbiteri il successo del Vangelo presso i pagani
b - vv. 20b-21: Giacomo espone il successo tra i Giudei zelanti e tira fuori l’accusa
c - vv. 22- 25: Paolo con un gesto mostri falsa l’accusa e osservi il decreto di Gerusalemme
d - vv. 26-28: il suo farsi servo diventa trappola mortale per Paolo
e - vv.29-30: Tròfimo, pagano cristiano, causa equivoco: pensavano che fosse nel tempio
f - vv. 31-36: Paolo scampato da morte grazie ai romani è portato nella fortezza
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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 13 ottobre 2014
Commento a Atti 21, 1-16

Sia fatta a volontà del Signore

Dopo il discorso di Mileto, il racconto riprende in prima persona plurale: Luca partecipa direttamente agli eventi.
L’autore fa un resoconto scarno delle tappe del “viaggio a Gerusalemme”, indicando località toccate e ciò che avviene nelle più o meno brevi soste. Non è semplice cronaca: il principio del “santo viaggio” ne rileva la portata teologica.
Luca ricalca il cammino di Paolo a Gerusalemme su quello del suo Maestro verso la passione. Il discepolo è condotto dallo Spirito del Figlio dell’uomo che è venuto per dare la sua vita a salvezza di tutti. Come il cammino di Gesù a Gerusalemme rivela il suo “volto” (=identità) di Figlio, che culmina nella “theoria” della croce (Lc 9,51,1-23,48), così il volto di Paolo rispecchia quello del Maestro (Atti 20,1-28,31).
L’Apostolo sa già il suo destino. Ha detto infatti: “Lo Spirito Santo mi attesta che in ogni città mi attendono catene e tribolazioni” (20,23). Per questo fa come Gesù, che “indurisce il volto” (cf. Lc 9,51ss) e procede risoluto verso Gerusalemme. Ricorda le parole: “ Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9,24).
I cristiani cercano di trattenerlo. Gli vogliono bene e hanno paura di perderlo.
Anche Paolo, seppure in modo diverso , ha sentito la sofferenza di Gesù nell’orto: “Padre, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42). L’opposizione tra la volontà dell’uomo e quella di Dio - tra la “mia” e la “tua” volontà - è la radice stessa di ogni male. Il Figlio dell’uomo lo ha portato su di sé nella sua crudezza. Per lui la croce è solitudine nera, caduta nell’abisso senza fondo dell’assenza da Dio.
Solo dopo di lui Paolo può dire con fiducia: “Sia fatta la volontà del Signore”. Per il discepolo infatti la morte significa ormai essere “con lui”, in sua compagnia come i due malfattori (cf. Lc 23,39-43). Paolo, dopo la croce, può affermare: “Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Gesù, a differenza di lui, ha fatto nulla di male. È il Giusto che da solo ha sfondato la barriera della perdizione. Il Figlio ha vissuto l’abbandono di Dio per farsi vicino a ogni fratello che ha abbandonato Dio. Il Figlio sperimenta il dramma stesso del Padre, abbandonato dall’uomo che egli ama. Dopo Gesù Paolo può dire: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno”. Sente addirittura “il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo” (Fil 1,21.23). Con questi sentimenti di fiducia e amore Paolo affronta il suo viaggio.
I fratelli lo vogliono trattenere. Sanno dallo Spirito che Paolo sta per andarsene; ma non hanno ancora lo Spirito per lasciarlo andare.
Pure i discepoli alla fine, non riuscendo a distoglierlo dal suo proposito, lo lasciano andare e trovano pace. È la stessa pace che Cristo ha dato a lui. E tutti dicono. “Sia fatta la volontà del Signore” (v. 14). “ Nella tua volontade è la nostra pace”.
Gesù ha affrontato la morte con paura e angoscia. Non è l’eroe che disprezza la vita, soprattutto altrui, a rischio anche della propria. Lui è vita e comunione: ha orrore della morte e della divisione. Pure il discepolo, suo testimone, non è come l’eroe. Però davanti a sé non ha l’abisso dell’abbandono, ma l’incontro con Gesù stesso, amore della sua vita. Per questo, superando paura e angoscia, con coraggio e fiducia combatte “la buona battaglia” e porta a termine la corsa (2Tm 4,7).




DIVISIONE
vv.1-3: inizio dell’ultimo viaggio: da Mileto a Gerusalemme
vv 4-7: visita ai cristiani di Tiro e Tolemaide
vv. 8-9: visita ai cristiani di Cesarea
vv.10-11: profezia di Agabo
vv 12-14: sia fatta la volontà del Signore
vv.15-16: salita a Gerusalemme
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11 years ago
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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 16 dicembre 2013
Commento a Atti 20, 32-36

Non vedrete più il mio volto

Abbiamo già incontrato vari discorsi di Paolo, diversi secondo i destinatari a cui si rivolge. In 13,17-41 parla a Giudei; in 14,15-17 e 17,22-31 parla rispettivamente a pagani devoti e a pagani colti. Incontreremo altri suoi discorsi nel seguito degli Atti. Questo è l’unico di tipo pastorale, rivolto a una comunità di credenti. Quanto qui leggiamo ci fa vedere cosa l’Apostolo diceva a chi già aveva accolto l’annuncio e ricevuto il battesimo. Non faceva discorsi teorici o programmatici, ma proponeva ciò che lui stesso faceva. La sua parola aveva “autorità” perché scaturiva dal suo modo di essere, dallo stile di vita visibile a tutti. Non diceva: “Armiamoci e partite”, ma faceva per primo quanto diceva.
Paolo sta andando a Gerusalemme e ripartire da lì per Roma, dove compirà la sua missione.
È un discorso di congedo, simile a quelli di Gesù nell’ultima cena nel vangelo di Giovanni. Lascia il suo testamento ai fratelli che ha generato nella fede come figli del Padre. Chi fa testamento dà in eredità ai suoi cari i propri beni. Non è un discorso missionario come quelli già visti né un discorso apologetico come vedremo in seguito.
Prima di andarsene, Paolo riflette sul suo ministero e sulla sua testimonianza, esortando i presbiteri di Efeso a imitare il servizio da lui reso alla Parola.
Luca, scrivendo gli Atti circa 20 anni dopo, rivolge queste parole a ogni comunità. Ciò che è stato al principio, è ciò che si farà anche dopo, con fedeltà duttile e creativa. Così Paolo ci ha insegnato, facendosi sempre “tutto a tutti”, sapendo accogliere le differenze e cogliere le istanze nuove.
Come i Vangeli, anche gli Atti sono un manuale di “aggiornamento”. Ci danno la spinta per seguire “oggi”, in modo sempre nuovo, l’imprevedibilità del Signore che sarà sempre con noi per eseguire il suo progetto di “ricapitolare tutto in Cristo” ( Ef 1,10). L’acqua della sorgente è sempre nuova ogni istante, come l’azione di Dio. Diversamente l’acqua viva diventa stagno o pantano di morte. Anche le lettere post-paoline portano avanti lo stesso insegnamento, adattandole al mondo giudaizzante-gnostico delle dottrine eterogenee in circolazione alla fine del I.° secolo (cf 1Tim 6,20). La lettura costante della Parola è per noi l’aggiornamento dell’antivirus contro la mondanità che quotidianamente si ripresenta in forme nuove – ma sempre vecchie come la morte.
I vangeli, presentandoci Gesù, ci mostrano come è chiamato ad essere ogni discepolo di ogni tempo. Gli Atti, presentandoci Paolo, fondatore di comunità, ci mostrano come sempre la chiesa dovrà essere, adattandosi ad ogni cultura e ad ogni tempo. Dio infatti parla nella realtà della storia, non nelle fantasie delle nostre idee. Compie infatti le sue promesse, non le nostre attese. Queste sono in gran parte dettate dai deliri delle nostre paure, che si fanno illusioni di controllo e potere. Ma, nonostante ogni barriera, l’acqua alla fine va sempre dove deve andare.
La comunità non si costruisce sui nostri progetti: deve radicarsi e crescere sulla roccia, che è il Vangelo di Gesù trasmesso con integrità. Gli anziani (i presbiteri) devono essere specchio di ogni virtù, imitatori di Paolo come lui lo è di Cristo (1Cor 11,1): siano irreprensibili, abbiano cura dei poveri, stiano attenti al pericolo della ricchezza e veglino perché lupi terribili non distruggano la comunità. Al centro del discorso c’è il v. 28: “State attenti a voi stessi e a tutto il gregge, in cui lo Spirito Santo vi ha posti come supervisori (= episcopoi) per pascere la chiesa di Dio che si è acquistato con il proprio suo sangue”. È una parola profetica che conferma gli anziani nel loro servizio: essere pastori del popolo della nuova alleanza, opera di Dio stesso, Padre, Figlio e lo Spirito.
Il testo, ricco di sapienza e sentimenti, rappresenta al vivo l’agire e il sentire di Paolo, modello per la comunità cristiana e i suoi pastori (cf.1Ts 2,1ss!). Tutti siamo chiamati ad essere “la lettera” viva di Cristo, leggibile da tutti ( cf.2Cor 3,1ss); anzi, “il profumo di Cristo” che si effonde nel mondo intero ( 2Cor 2,14).



DIVISIONE
a. vv. 18-27: Paolo modello integro di testimonianza evangelica
1 - vv. 18-21: comportamento di Paolo nel passato
2 - vv. 22-24: sua situazione presente e futura
3 - vv. 25-27: Paolo esempio per i presbiteri
b. vv. 28-35: appello alla vigilanza contro i lupi e all’amore per i poveri
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11 years ago
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Lectio: Atti degli Apostoli
Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 9 dicembre 2013
Commento a Atti 20, 25-28

Non vedrete più il mio volto

Abbiamo già incontrato vari discorsi di Paolo, diversi secondo i destinatari a cui si rivolge. In 13,17-41 parla a Giudei; in 14,15-17 e 17,22-31 parla rispettivamente a pagani devoti e a pagani colti. Incontreremo altri suoi discorsi nel seguito degli Atti. Questo è l’unico di tipo pastorale, rivolto a una comunità di credenti. Quanto qui leggiamo ci fa vedere cosa l’Apostolo diceva a chi già aveva accolto l’annuncio e ricevuto il battesimo. Non faceva discorsi teorici o programmatici, ma proponeva ciò che lui stesso faceva. La sua parola aveva “autorità” perché scaturiva dal suo modo di essere, dallo stile di vita visibile a tutti. Non diceva: “Armiamoci e partite”, ma faceva per primo quanto diceva.
Paolo sta andando a Gerusalemme e ripartire da lì per Roma, dove compirà la sua missione.
È un discorso di congedo, simile a quelli di Gesù nell’ultima cena nel vangelo di Giovanni. Lascia il suo testamento ai fratelli che ha generato nella fede come figli del Padre. Chi fa testamento dà in eredità ai suoi cari i propri beni. Non è un discorso missionario come quelli già visti né un discorso apologetico come vedremo in seguito.
Prima di andarsene, Paolo riflette sul suo ministero e sulla sua testimonianza, esortando i presbiteri di Efeso a imitare il servizio da lui reso alla Parola.
Luca, scrivendo gli Atti circa 20 anni dopo, rivolge queste parole a ogni comunità. Ciò che è stato al principio, è ciò che si farà anche dopo, con fedeltà duttile e creativa. Così Paolo ci ha insegnato, facendosi sempre “tutto a tutti”, sapendo accogliere le differenze e cogliere le istanze nuove.
Come i Vangeli, anche gli Atti sono un manuale di “aggiornamento”. Ci danno la spinta per seguire “oggi”, in modo sempre nuovo, l’imprevedibilità del Signore che sarà sempre con noi per eseguire il suo progetto di “ricapitolare tutto in Cristo” ( Ef 1,10). L’acqua della sorgente è sempre nuova ogni istante, come l’azione di Dio. Diversamente l’acqua viva diventa stagno o pantano di morte. Anche le lettere post-paoline portano avanti lo stesso insegnamento, adattandole al mondo giudaizzante-gnostico delle dottrine eterogenee in circolazione alla fine del I.° secolo (cf 1Tim 6,20). La lettura costante della Parola è per noi l’aggiornamento dell’antivirus contro la mondanità che quotidianamente si ripresenta in forme nuove – ma sempre vecchie come la morte.
I vangeli, presentandoci Gesù, ci mostrano come è chiamato ad essere ogni discepolo di ogni tempo. Gli Atti, presentandoci Paolo, fondatore di comunità, ci mostrano come sempre la chiesa dovrà essere, adattandosi ad ogni cultura e ad ogni tempo. Dio infatti parla nella realtà della storia, non nelle fantasie delle nostre idee. Compie infatti le sue promesse, non le nostre attese. Queste sono in gran parte dettate dai deliri delle nostre paure, che si fanno illusioni di controllo e potere. Ma, nonostante ogni barriera, l’acqua alla fine va sempre dove deve andare.
La comunità non si costruisce sui nostri progetti: deve radicarsi e crescere sulla roccia, che è il Vangelo di Gesù trasmesso con integrità. Gli anziani (i presbiteri) devono essere specchio di ogni virtù, imitatori di Paolo come lui lo è di Cristo (1Cor 11,1): siano irreprensibili, abbiano cura dei poveri, stiano attenti al pericolo della ricchezza e veglino perché lupi terribili non distruggano la comunità. Al centro del discorso c’è il v. 28: “State attenti a voi stessi e a tutto il gregge, in cui lo Spirito Santo vi ha posti come supervisori (= episcopoi) per pascere la chiesa di Dio che si è acquistato con il proprio suo sangue”. È una parola profetica che conferma gli anziani nel loro servizio: essere pastori del popolo della nuova alleanza, opera di Dio stesso, Padre, Figlio e lo Spirito.
Il testo, ricco di sapienza e sentimenti, rappresenta al vivo l’agire e il sentire di Paolo, modello per la comunità cristiana e i suoi pastori (cf.1Ts 2,1ss!). Tutti siamo chiamati ad essere “la lettera” viva di Cristo, leggibile da tutti ( cf.2Cor 3,1ss); anzi, “il profumo di Cristo” che si effonde nel mondo intero ( 2Cor 2,14).



DIVISIONE
a. vv. 18-27: Paolo modello integro di testimonianza evangelica
1 - vv. 18-21: comportamento di Paolo nel passato
2 - vv. 22-24: sua situazione presente e futura
3 - vv. 25-27: Paolo esempio per i presbiteri
b. vv. 28-35: appello alla vigilanza contro i lupi e all’amore per i poveri
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11 years ago
1 hour 19 minutes 55 seconds

Lectio: Atti degli Apostoli
Le lectio degli Atti degli Apostoli tenute da Silvano Fausti e dai suoi confratelli della Comunita di Villapizzone (Milano) il lunedi sera.

L'icona è l'opera "Der Morgen am See" di Sieger Köder
Eventuali ulteriori informazioni possono essere trovate su http://www.schwabenverlag-online.de/sk_vita.php