Possiamo essere tecnicamente eccellenti, preparati, aggiornati, esperti nei protocolli, nelle linee guida, nella comunicazione scientifica.
Possiamo essere formatori brillanti, counselor strategici capaci, coach precisi.
Ma se non coltiviamo la relazione, se non ci prendiamo cura di come stiamo dentro l’incontro con l’altro, manca sempre qualcosa.
E spesso, è proprio quel qualcosa invisibile a fare la differenza più profonda: quella che resta nel tempo, quella che cambia le persone, quella che fa sentire visti, accolti, riconosciuti.
La relazione nel mondo sanitario: più di una competenza, una scelta di presenza
Nella cura, la relazione non è un accessorio.
È sostanza, ambiente, clima emotivo.
Un gesto tecnico, per quanto corretto, se avviene in un vuoto relazionale, rischia di risultare freddo, meccanico, a volte persino invasivo.
La persona assistita ha bisogno sì di competenza, ma anche di umanità, di presenza vera, di un ascolto che non giudica.
Ha bisogno di sapere che c’è qualcuno lì, con lei, non solo per lei.
Perché curare non è solo “fare qualcosa per l’altro”, ma esserci insieme all’altro.
Oggi più che mai, in un sistema sanitario che corre veloce, che a volte dimentica il volto delle persone dietro ai numeri e agli indicatori, la relazione è atto rivoluzionario.
È un modo per rallentare, per tornare a vedere, per ridare senso a ciò che facciamo.
Una relazione autentica può cambiare l’esperienza della malattia.
Anche quando non possiamo guarire, possiamo sempre prenderci cura.
E la cura passa per lo sguardo, per il modo in cui nominiamo il dolore, per la qualità del silenzio che sappiamo sostenere.
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