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Arte Svelata
Arte Svelata
100 episodes
5 days ago
Un luogo d'incontro per chi ama l’arte e vuole scoprirne la storia e i segreti.
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Episodes (20/100)
Arte Svelata
Da Mirone e Policleto a Platone
Versione audio:
Furono diversi gli scultori greci che, tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C., produssero prototipi di figure d’atleta destinati a grande fortuna. Tra questi, Naukydes, Naucide in italiano, attivo tra il 420 e il 390 a.C. circa, fu uno dei più valenti discepoli di Policleto. È lui il probabile autore di un celebrato Discoforo, letteralmente ‘portatore del disco’, il cui originale in bronzo è andato purtroppo perduto.
L’opera rappresentava un pentatleta in posizione di riposo. A differenza del Discobolo di Mirone, impegnato in una competizione, il Discoforo di Naucide non stava ancora compiendo il gesto atletico. Era, come il Doriforo di Policleto, più che altro un atleta simbolo, la sua identità di campione sembrava esplicarsi unicamente attraverso la bellezza del suo corpo.
Il Discoforo di Naucide
Possiamo verificarlo attraverso alcune copie, una delle quali si trova a Parigi e un’altra a Roma. L’atleta, in posizione eretta, appare leggermente sbilanciato sulle gambe, con il braccio sinistro, quello che tiene il disco, allungato lungo il corpo. Sembra che il giovane stia cercando una posizione equilibrata prima di sollevare e lanciare il disco. Il volto, leggermente abbassato verso destra, è segnato da un’espressione assorta e concentrata.
Non è facile stabilire se questo modello di Discoforo sia un’invenzione originale di Naucide o piuttosto la sua personale rielaborazione di una precedente idea di Policleto. Ma poco importa. Esso comunque testimonia di quanto sia stata profondamente radicata, nella Grecia del V secolo a.C., una certa idea di bellezza, basata essenzialmente sul naturalismo idealizzato.
Il Bello artistico e filosofico
Il Bello, per i Greci, è qualcosa che si trova insito in Natura; ma il bello naturale non è bello in sé, giacché imperfetto. La bellezza assoluta risiede altrove e compito dell’artista è quello di ricrearla. Questa concezione estetica risentiva profondamente della posizione di alcuni importanti filosofi greci di quel periodo.
Primo fra tutti, l’ateniese Platone (428/427348/347 a.C.). Nel periodo maturo del suo pensiero, egli introdusse un modo di guardare la realtà che avrebbe rivoluzionato e caratterizzato la tradizione filosofica futura. Il filosofo ateniese riteneva che ciò che appare ai nostri sensi non corrisponda all’essenza intima della realtà. Per questo, distinse il mondo sensibile dal mondo delle Idee.
Le Idee di Platone
Le Idee (dal greco èidos, ‘forma’, ‘idea’) sono entità puramente intelligibili, eterne e immutabili che si trovano al di là del mondo concreto, in una regione sovraceleste detta Iperuranio. Platone concepì l’esistenza di Idee per qualunque cosa, comprese le specie naturali, indipendenti rispetto agli oggetti sensibili. Il mondo sensibile o corporeo, ossia il livello di realtà nel quale gli uomini vivono, soggetto a corruzione e a mutamento, è la riproduzione materiale della realtà autentica, quella dell’Iperuranio, che invece è puramente intelligibile e dunque comprensibile solamente attraverso il pensiero.
Secondo Platone (vedi il dialogo platonico intitolato Timeo), un Demiurgo fu l’artefice divino che plasmò il mondo materiale, prendendo a modello le Idee dell’Iperuranio. Quindi, ad esempio, tutti i cavalli di cui facciamo esperienza sensibile (che vediamo correre, che tocchiamo sul muso, ecc.) per Platone non sono altro che la copia imperfetta di un modello ideale (perfetto) di cavallo che vive nell’Iperuranio.
Aspirare alla perfezione
Potrebbe dunque sorgere una domanda legittima: questo mondo perfetto è accessibile all’uomo? Sembrerebbe di sì. In che maniera? Platone rispose: attraverso l’anima. Ogni uomo è dotato di anima, principio immortale e incorporeo della vita, costretta a vivere nell’involucro materiale e mortale del corpo, concepito come sua prigione e zavorra. Come il filosofo spiega nei suoi dialoghi Simposio e Fedro,
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2 months ago
8 minutes 12 seconds

Arte Svelata
I Sassi di Matera in Basilicata
Versione audio:
La città di Matera, in Basilicata, è rinomata per i suoi rioni storici denominati Sassi (il Sasso Barisano a Nord e il Sasso Caveoso a Sud), che l’Unesco ha riconosciuto patrimonio dell’umanità in quanto “paesaggio culturale”. I Sassi sono infatti un agglomerato urbano realizzato a ridosso di un profondo burrone, con abitazioni, chiese rupestri, cisterne e sistemi di raccolta delle acque in buona parte ricavati nella roccia.
Matera fu abitata già in epoca preistorica. In seguito, arrivarono i Greci, i Romani e, a seguire, i Longobardi. A partire dall’VIII secolo, giunsero anche monaci benedettini e bizantini, che scavarono le chiese rupestri. Una nuova espansione urbanistica del complesso risale al periodo romanico e gotico. I Sassi furono abitati con continuità fino al 1952, quando il governo italiano ne ordinò lo sgombero per motivi di “igiene” e circa 15.000 persone furono trasferite in nuovi quartieri residenziali.
L’abitato
Per secoli, prima che i Sassi di Matera si affollassero tanto da risultare invivibili, il sistema urbanistico rupestre si era dimostrato efficace. Le strade erano affiancate da canali d’irrigazione che rifornivano le cisterne di ogni casa (alcune, le più grandi, ne avevano fino a sette). Sui tetti erano stati ricavati orti e giardini pensili. L’illuminazione delle case avveniva dall’alto, attraverso lucernari.
La temperatura interna degli ambienti si manteneva costante, intorno ai 15 gradi. Le abitazioni si affacciavano a gruppi su uno spiazzo comune, spesso dotato di un pozzo al centro, dove si lavavano i panni, e di un forno, dove si cuoceva il pane. Questi micro-nuclei urbani erano l’espressione più evidente di un modello sociale di vita comunitaria.
Santa Lucia
Matera vanta formidabili complessi monastici scavati nella roccia, sia benedettini sia bizantini, con le celle dei monaci raccolte intorno alle chiese sotterranee. Tra i più importanti conventi ricavati nell’ambito urbano troviamo Santa Lucia alle Malve, un complesso rupestre che anticamente ospitava un’intera comunità monastica e che conserva, sulle pareti interne, alcuni affreschi, molti dei quali risalgono al XII secolo. L’Arcangelo Gabriele che calpesta un drago, simbolo del male e degli infedeli, è datato 1250; quello della Madonna del Latte è del 1270. La chiesa vera e propria era separata dalle abitazioni monastiche, che a partire dal XIII secolo furono utilizzate come abitazioni private. Ancora oggi, il 13 Dicembre, nel giorno di Santa Lucia, in questa chiesa si celebra la messa.
Convicinio di Sant’Antonio
A fianco del torrente Gravina si trova il cosiddetto Convicinio di Sant’Antonio, un complesso architettonico di chiese rupestri, risalenti a un periodo compreso fra l’XI e il XIII secolo, che probabilmente facevano parte di un monastero di grandi dimensioni. Quattro chiese rupestri confinanti si affacciano su un solo cortile rettangolare: sono la Chiesa di Sant’Antonio Abate, la Chiesa di San Donato, la Chiesa di Santa Maria Annunziata e la Chiesa di San Primo. Il portale d’ingresso è a sesto acuto, decorato con motivi trilobati.
San Primo presenta delle volte decorate con nervature e ha l’affresco d’un santo ignoto. Questa chiesa è più conosciuta con il nome popolare di Tempe cadute, ossia massi caduti (le ‘tempe’ sono, appunto, i massi). Attraverso un varco, sulla sinistra, si accede alla contigua chiesa dell’Annunziata, decorata nell’abside con affreschi del Cristo tra Maria e san Giovanni Evangelista, e nella parete sinistra con una santa monaca e la Madonna col Bambino. San Donato è a pianta quadrangolare con due pilastri centrali che separano gli spazi e individuano tre zone: il vestibolo, l’aula e il presbiterio. La volta centrale è decorata una con grande croce gigliata in rilievo.
I Sassi nel cinema
Per il carattere suggestivo del loro paesaggio urbano, i Sassi di Matera sono stati scelti come ambientazi...
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2 months ago
4 minutes 45 seconds

Arte Svelata
Paestum
Versione audio:
Paestum (oggi in provincia di Salerno) è il nome latino dell’antica città di Poseidonia, importante colonia magnogreca fondata verso la metà del VII secolo a.C., a un centinaio di chilometri da Napoli. Fu chiamata così dai Greci in onore di Poseidone ma in realtà fu devotissima ad Atena e a Era. Poseidonia raggiunse il momento di massimo splendore in età arcaica, a partire dal 560 a.C.
I tre principali templi della città furono edificati a distanza di cinquant’anni l’uno dall’altro. Sono: il Tempio di Hera o Basilica (550 a.C. ca.), il Tempio ad Atena (500 a.C. ca.), una volta detto di Cerere, e il Tempio di Nettuno o Poseidone (450 a.C. ca.), detto Poseidonion. L’area del Santuario di Atena, con il tempio omonimo, si trovava a nord delle tre strade cittadine principali. Il Santuario di Poseidone, con i templi di Hera e di Poseidone, era nella fascia tra la strada di mezzo e quella più meridionale.
I tre templi di Paestum furono tutti costruiti nel calcare locale, che solo nel Tempio di Nettuno ha assunto una calda patina dorata, forse perché tratto da un’altra cava. Gli edifici sono giunti a noi in buone condizioni e costituiscono una testimonianza fondamentale dell’architettura templare greca antica. In particolare, dimostrano come lo stile dorico abbia trovato nelle colonie della Magna Grecia una delle sue migliori espressioni. Per questo, il sito archeologico di Paestum, insieme a quello della vicina Velia, rientra nei confini del Parco del Cilento che, per l’importanza del suo paesaggio naturale e culturale e per la presenza dei due insediamenti, è stato riconosciuto dall’Unesco patrimonio dell’Umanità.
Il Tempio di Hera (Basilica)
Il Tempio di Hera, detto anche Basilica, fu edificato intorno al 550 a.C. e dedicato alla sposa di Zeus, la divinità più venerata a Poseidonia. Nel XVIII secolo, l’edificio non fu riconosciuto come tempio ma scambiato per una struttura porticata adibita a tribunale e sede delle assemblee cittadine, e per questo venne chiamato Basilica, nome con cui ancora oggi è noto. Si presenta, nel complesso, in buone condizioni, anche se mancano varie parti: i muri del nàos, le parti superiori della trabeazione, i frontoni, la pavimentazione e, ovviamente, la copertura.
A differenza di altri edifici della stessa epoca, il Tempio di Hera presenta un numero dispari di colonne nei prospetti. È, infatti, un tempio ennàstilo, con nove colonne sui fronti, mentre sono diciotto quelle sui lati lunghi. ll rettangolo di base misura ben 24,52 x 54,30 metri allo stilobate, la parte superiore del basamento. La peristasi, composta da 9 x 18 colonne, si è conservata integralmente. Le metope e i timpani, perduti, erano quasi certamente privi di decorazioni scultoree, essendo ancora del tipo arcaico. Le metope erano lisce, forse solo dipinte, oppure rivestite da lastre di terracotta colorate di rosso e blu.
Le colonne, in pietra calcarea grigia e alte 4,68 metri, presentano un’entasi molto accentuata e una marcata rastremazione; l’echino del capitello è schiacciato ed espanso e l’abaco piuttosto largo. Fusto e capitello sono uniti da un collarino decorato con piccole incavature regolari a forma di foglioline stilizzate.
Il pronaos era tristilo, cioè presentava tre colonne in àntis, tuttora esistenti. All’interno del nàos, cui si accedeva da due porte laterali, si trovava un solo colonnato centrale. Delle 7 colonne originarie sono rimaste solo le prime 3. Invece dell’opistòdomos, nella parte posteriore, si trovava l’àdyton, un ambiente chiuso cui si accedeva dal nàos, anche in questo caso da due porte laterali. Tale stanza, presente anche in altri templi greci in Italia, conservava, probabilmente, il tesoro del tempio e ospitava la statua della dea. L’àdyton, il prospetto ennastilo e il colonnato unico interno sono senza dubbio gli elementi più tipicamente arcaici di questo tempio. Soluzioni analoghe sarebbero state decisamente abbandonate dall’architet...
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4 months ago
10 minutes 1 second

Arte Svelata
Le tre Amazzoni
Versione audio:
Le amazzoni (dal greco amazòn, composto da alfa privativa e mazós, ‘senza mammella’) appartenevano, secondo la mitologia greca, a un popolo di donne guerriere, originario del Caucaso ma insediatosi nelle coste centrosettentrionali dell’Asia Minore. Queste donne, che combattevano a cavallo, armate di arco, ascia e scudo, erano così chiamate perché, secondo il racconto, usavano amputarsi la mammella destra con un disco di rame arroventato, per tirare meglio le frecce.
Le amazzoni furono protagoniste di moltissime rappresentazioni artistiche, sia nell’ambito della pittura vascolare greca, sia in quello della scultura. Molti bassorilievi rappresentano le cosiddette “amazzonomachie”, ossia le mitiche battaglie combattute dalle amazzoni. Vi sono tuttavia tre opere, in particolare, che meritano una riflessione più approfondita. Si tratta di statue a tutto tondo scolpite, da grandi maestri dell’arte greca, nel contesto di una grandiosa competizione, e note come Amazzone Capitolina, Amazzone Mattei e Amazzone Sciarra.
La competizione
Secondo Plinio il Vecchio (storico romano vissuto nel I sec. d.C.), fra il 438 e il 435 a.C. fu indetta una gara per scolpire una immagine di amazzone ferita da destinare al Santuario di Artemide a Efeso (Plin., Nat. Hist., XXXIV, 19). I contendenti furono Fidia, Policleto e Cresila, assieme a Phradmon e Kydon. Furono i medesimi artisti a giudicare l’opera di ciascun avversario, assegnando la vittoria a Policleto. La scultura di Fidia arrivò seconda, quella di Cresila terza, quella di Kydon quarta e quella di Phradmon solo quinta. Leggiamo, infatti, in Plinio: «Piacque che fosse scelta quella più apprezzata degli artisti stessi, che erano presenti, con un giudizio, allora si vide essere quella, che tutti avevano giudicata seconda ciascuno dopo la propria». (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXIV, 53).
Tutti gli originali sono andati perduti; per fortuna, conosciamo i modelli dei primi tre artisti, grazie a numerose copie romane che non solo attestano il grande successo di questi capolavori ma ci permettono di confrontarli. Purtroppo, l’assegnazione di ogni Amazzone al proprio autore è ancora oggetto di discussione: le opere sono molto simili e non presentano caratteri stilistici così definiti da consentire un’attribuzione certa. Inoltre, trattandosi di copie, potrebbero non essere fedelissime agli originali. È stata formulata un’ipotesi, tendenzialmente condivisa, che tuttavia dobbiamo presentare come tale.
L’Amazzone Capitolina
L’Amazzone ferita detta Capitolina potrebbe essere di Policleto, perché presenta proporzioni coerenti con quelle del Doriforo. La copia conservata ai Musei Capitolini è firmata da Sosiklès (o Sòsicle), uno scultore ateniese attivo alla fine del II secolo d.C. La figura femminile, sostanzialmente ponderata, scarica il peso del corpo sulla sola gamba sinistra, mentre la destra è flessa. Policleto, con il Doriforo, aveva già perfezionato la posizione ancata dei Bronzi di Riace (uno dei quali plasmato dal suo maestro Agelada), rendendola assolutamente sciolta e naturale.
Eppure, sembra quasi che il grande artista stesse già ponendo le basi per il superamento di questo supremo equilibrio, come se le conquiste raggiunte fossero diventate non più solo un traguardo ma una base di partenza per nuove sperimentazioni. Osserviamo, infatti, che il busto della sua amazzone è sbilanciato verso destra, sul lato dov’è aperta la ferita, che la donna scopre rimuovendo il chitone con la mano. L’asse del corpo è chiaramente spostato rispetto al baricentro, e verso la parte instabile, poiché segue una linea ideale che congiunge il capo inclinato, la ferita e la gamba flessa.
L’Amazzone Mattei
Anche la cosiddetta Amazzone Mattei, che potrebbe essere di Fidia, presenta un esempio di superamento della ponderazione policletea. La donna, ferita alla coscia sinistra, tiene la gamba destra tesa ma si sbilancia verso la parte d...
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5 months ago
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Arte Svelata
Dall’Egitto a Parigi. La Piramide del Louvre di Ieoh Ming Pei
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Perché le piramidi dell’Antico Egitto ci affascinano così tanto? Perché sono grandi e maestose e anche per noi oggi costituirebbero una grande sfida costruttiva. Perché sono simboli di potere e di eternità. Perché la loro costruzione è ancora avvolta nel mistero: hanno camere nascoste e gli archeologi sperano di trovare al loro interno altri ambienti segreti, finora mai scoperti. Alle piramidi sono stati dedicati documentari, film di successo, libri e videogiochi. Ne consegue che, quando si pensa alla forma geometrica della piramide, vengono subito in mente proprio le piramidi egizie, i monumenti funerari per eccellenza: maestose, perfette, immutabili. Un esempio di come l’uomo possa, con l’ingegno e la fatica, creare qualcosa capace di sfidare il tempo e aspirare all’eterno.
Molte piramidi nel mondo
In realtà, le piramidi non sono solo egizie. Sono infatti riconducibili a questa forma geometrica sia le grandiose ziggurat mesopotamiche sia i giganteschi templi costruiti dalle civiltà mesoamericane (soprattutto i Maya), in Messico, fino al XV secolo d.C. Ricordiamo, poi, la Piramide di Cestio a Roma.
Il fascino misterioso esercitato dalla forma geometrica della piramide si è mantenuto anche nell’arte occidentale di età cristiana, dal Rinascimento in poi, e soprattutto dopo la “riscoperta” ottocentesca della civiltà egizia, a opera degli archeologi. Raffaello introdusse la forma della piramide nella sua Cappella Chigi, Canova scolpì una piramide per il suo Monumento Funebre a Maria Cristina d’Austria.
Una piramide di vetro
Ancora oggi, il fascino esercitato dalle piramidi è rimasto immutato. Lo dimostra il più famoso edificio piramidale contemporaneo del mondo: la Piramide del Louvre, inaugurata a Parigi nel 1989 e progettata dall’architetto statunitense di origine cinese Ieoh Ming Pei (1917-2019). Pei, autore di edifici avveniristici e per questo considerato come uno dei grandi maestri dell’architettura del Novecento, ha spesso ricercato la convivenza fra strutture estremamente tecnologiche con altre dalle forme più tradizionali.
Questa sua Piramide del Louvre, dalla struttura trasparente, in vetro e acciaio, concepita come un nuovo ingresso per il prestigioso museo parigino, oggi si offre come centro ideale dell’intero complesso architettonico barocco. Naturalmente, l’inserimento di un’opera così moderna nella vecchia Cour Napoléon, il cortile all’interno del Louvre, ha comportato una trasformazione piuttosto radicale dell’immagine dell’antico palazzo reale.
Così antica, così contemporanea
Questa scelta, sicuramente audace, ha alimentato le proteste di chi ha voluto contestare a Pei “la geometria glaciale” della sua piramide e soprattutto l’incongruenza di questa forma geometrica con il contesto architettonico di Parigi, al quale essa sarebbe estranea. Ma l’architetto ha respinto tali critiche, dichiarando che «coloro che parlano [della piramide come] di “casa dei morti” hanno letto male la storia. Pensano all’Egitto. Quando si passa dalla pietra al vetro tutto cambia completamente. La piramide, forma geometrica fondamentale, è “classica”; essa appartiene all’arte di tutte le epoche e al mondo intero».
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7 months ago
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La Natura morta nel Seicento. Seconda parte
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La Natura morta è un genere pittorico nato nel Cinquecento e sviluppatosi con grande successo nel corso del XVII secolo. Ebbe straordinaria fortuna non solo in Italia, dove trovò in Caravaggio un sostenitore convinto e un vero caposcuola, ma in tutta l’Europa. Le nature morte fiamminghe, olandesi, spagnole e tedesche sono di rara bellezza. Non di rado, questo genere si prestò a sollecitare, in chiave allegorica, riflessioni sulla caducità della vita e sull’incombenza della Morte, che vanifica ogni ambizione e velleità.
Bruegel, la Natura morta fiamminga
Nelle Fiandre, Jan Bruegel il Vecchio (1568-1625), detto anche dei Velluti per la finezza esecutiva dei dettagli, fu un prolifico autore di nature morte e paesaggi. Soggiornò a lungo in Italia negli anni Novanta del Cinquecento, e in particolare a Milano, stringendo rapporti con gli altri artisti lombardi del tardo Rinascimento. Bruegel è considerato un altro antesignano della Natura morta propriamente intesa. Dipinse quadri di fiori con la competenza di un botanico, ricercatissimi dai collezionisti e come tali costosissimi; in alcuni suoi dipinti con mazzi di fiori recisi si possono contare oltre 100 specie diverse.
Claesz, la Natura morta olandese
In Olanda, nel XVII secolo, le Nature morte mirarono a esprimere l’amore per l’intimità familiare: quello stesso che connotava così profondamente la società borghese del tempo. In questo paese il genere della natura morta ebbe grandissima fortuna; a partire dagli anni Venti alcuni pittori di Haarlem, tra cui Pieter Claesz (1596/98-1661), divennero autentici specialisti nella rappresentazione di tavole apparecchiate.
Bisogna infatti ribadire che ogni pittore di Nature morte tendeva a specializzarsi, diventando pittore di fiori o di pesci o di tavole apparecchiate. La sua arte aveva un carattere eminentemente imprenditoriale e tendeva ad evitare intellettualismi che potevano renderla troppo difficile e impopolare. Egli operava per «rendere riconoscibile, con sorta di firma, il proprio prodotto», orientava la propria attenzione «su un universo di oggetti a lui vicini, che possono essere contenuti nel ristretto ambito dello studio. La Natura morta sembra allora essere una sorta di autocelebrazione della propria capacità replicativa, nell’ordine della meraviglia, nel sentimento barocco dell’inganno e dello stupore» (A.Veca).
Claesz, per esempio, era specializzato in “banchetti” e “piccole colazioni”, ossia nella raffigurazione di tavole imbandite. Produsse molte opere di grande fascino e suggestione, nelle quali il virtuosismo realistico (apprezzabile nella trasparenza dei bicchieri, nella lucentezza del vasellame d’argento, nei riflessi, di un realismo spettacolare) si accompagna a un taglio assai semplificato delle composizioni.
Spesso, le stoviglie abbandonate su un buffet sembrano testimoniare la conclusione di un festeggiamento: forse un’allusione alla caducità della vita. Gli oggetti, com’è facile verificare, sono in genere gli stessi, segno che il pittore li possedeva e li combinava di volta in volta in modo differente, sul tavolo davanti al suo cavalletto, per creare nuove combinazioni.
Zurbaran, la Natura morta spagnola
In Spagna furono prodotti i cosiddetti bodegones, piccoli quadri che raffigurano ortaggi o comuni oggetti di terracotta, disposti entro semplici scaffali o in modesti ambienti domestici. Con il termine spagnolo bodegon, infatti, si usa indicare uno specifico genere di Natura morta ambientata in cucina, con tutti gli elementi ad essa connessi: selvaggina morta, pesci, dolci ma soprattutto brocche, piatti e bicchieri.
Maestro del genere fu Francisco de Zurbarán (1598-1664), tra i maggiori pittori spagnoli del XVII secolo. Autore anche di pittura sacra, fu attivo fra l’inizio del terzo decennio e l’anno della sua morte. Sensibile al linguaggio caravaggesco, elaborò un linguaggio pittorico piuttosto arcaicizzante,
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7 months ago
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La Natura morta nel Seicento. Prima parte
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Nell’arte figurativa, si definisce Natura morta quel genere artistico che prevede la raffigurazione di fiori, frutta, pesci, cacciagione o vari oggetti d’uso, presentati come soggetti autonomi. L’origine della Natura morta è molto antica. Concepiti come rappresentazioni autonome o inseriti in contesti narrativi più complessi, fiori, frutta e oggetti sono presenti, in pittura, già nell’arte egizia e mesopotamica e poi in quella greca e romana. Anche nell’arte bizantina e medievale occidentale, le scene bibliche e le storie dei santi offrono occasioni per raffigurare stoviglie e vivande sulle tavole, libri, strumenti per la scrittura.
Fiori e frutti sono adottati come simboli di Maria e di Cristo e accompagnano le loro figure. Nei dipinti fiamminghi del XIV secolo, che ricostruiscono analiticamente interni e arredi, e anche in certi esempi quattrocenteschi di pittura italiana, vedi il Cenacolo di Leonardo a Milano, si possono riconoscere i diretti antecedenti della Natura morta. In qualche modo, sono già di fatto Nature morte i versi, cioè le parti posteriori, di certi ritratti fiamminghi e tedeschi, con la rappresentazione autonoma di oggetti.
Il Vaso di fiori di Hans Memling, lato B del Ritratto di giovane uomo che prega del 1485, costituisce un esempio emblematico. Anche veri e propri trompe-l’oeil che si diffondono nel primo Rinascimento in dipinti, miniature e tarsie costituiscono un antecedente di questo genere in Italia: pensiamo alle tarsie dello Studiolo di Federico da Montefeltro a Urbino, realizzate attorno al 1476. Il primo esempio italiano di Natura morta inteso come genere pittorico autonomo è la tavola (forse sportello di un armadio) con una pernice, guanti di ferro e un dardo di balestra, del veneziano Jacopo de’ Barbari, firmata e datata 1504.
Un genere minore
Il termine Natura morta è seicentesco e comparve per la prima volta in alcuni inventari di quadri olandesi di metà XVII secolo. Qui leggiamo di Stilleven, parola poi tradotta nel tedesco Stilleben e nell’inglese Still life (traducibile letteralmente con “vita immobile”): tutte espressioni che indicano il carattere fermo dei soggetti illustrati, in contrapposizione alle immagini con figure umane dove si voleva cogliere il senso della vita, del movimento, più o meno trattenuto, della vivacità intellettuale, dell’ardore sentimentale ed emotivo. Le dizioni Nature morte e Natura morta sono invece tipiche dei paesi latini.
A Parigi, sempre nel XVII secolo, sotto la guida del pittore Charles Le Brun (1619-1690), massimo esponente della cultura pittorica e decorativa dell’età di Luigi XIV, furono ordinati gerarchicamente tutti i generi pittorici allora prodotti. Quello cui i francesi riconobbero maggiore importanza fu ovviamente il genere “di storia” (biblica, mitologica e relativa alle gesta di uomini famosi); seguivano il ritratto, la pittura di paesaggio, la pittura di animali e, per ultimo, proprio quello della Natura morta, considerato con disprezzo dall’Accademia perché si limitava alla rappresentazione di fiori, cibarie e oggetti. Gli acquirenti di Nature morte furono normalmente borghesi, che amavano con queste opere decorare le sale da pranzo delle proprie case o delle ville di campagna.
Le prime nature morte
Se il Seicento è considerato il secolo della Natura morta, l’uso di introdurre nei quadri alcune immagini di oggetti tratti dal vero fa parte di una lunga tradizione. Nella seconda metà del Cinquecento, però, il diffuso interesse per gli studi naturalistici aveva spinto alcuni artisti a produrre dipinti che destinavano gran parte della composizione ai fiori, alla frutta o alle tavole imbandite. Nelle Fiandre, per esempio, le scene evangeliche furono talvolta relegate in secondo piano per lasciare spazio a descrizioni di mercati o di interni di cucina. Negli ultimi decenni del secolo, il nuovo filone cominciò ad incontrare il favore del pubblico: così, fiori, frutta, ortaggi,
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8 months ago
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La Valle dei Templi di Agrigento
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La città greca di Akràgas fu fondata in Sicilia dagli abitanti della vicina Gela nel 581 a.C. e divenne presto uno dei centri urbani più importanti e prosperi del mondo antico. Fu poi chiamata Agrigento dai Romani. La Valle dei Templi, edificata nel V secolo a.C., occupava il margine sud della città. Non era quindi l’Acropoli, che invece si trovava più a monte. Il nucleo originario, quello di età greca, comprendeva dieci templi, tre santuari e due piazze; in Età romana furono poi edificati alcune necropoli, un quartiere residenziale e una sala del consiglio cittadino.
Tra i templi più importanti si distinguono il Tempio della Concordia (quasi perfettamente conservato), il Tempio di Giunone, il Tempio di Eracle e il Tempio di Zeus Olimpio (ridotti a ruderi).  Con i suoi 1300 ettari di estensione, la Valle dei Templi è uno dei Parchi archeologici più vasti del mondo, oltre che uno dei più famosi. Dal 1997, è diventata patrimonio dell’umanità dell’UNESCO.
Tempio di Demetra/Chiesa di San Biagio
La visita del Parco archeologico inizia dalla cima della Rupe Atenea dove, ci dice lo storico greco antico Polibio, si trovava un Santuario di Zeus Atabyrios e di Athena Lindia. L’antico Tempio di Demetra, costruito fra il 480 e il 470 a.C., è stato inglobato nella chiesetta medievale di San Biagio. Era un edificio privo del colonnato esterno e costituito da una semplice cella, preceduta da un pronaos con due colonne. Della struttura originaria si conservano il basamento (crepidoma), ancora in parte visibile, i muri esterni della cella e, all’interno, quelli divisori tra cella e pronaos.
Tempio di Giunone
Scendendo lungo la Via Panoramica dei Templi, s’incontra il cosiddetto Tempio di Hera o di Giunone (Tempio D), in realtà dedicato ad Atena, come suggeriscono gli studi più recenti. Fu edificato a metà del V secolo a.C., intorno al 460-450 a.C. Ha un crepidoma di 4 gradoni. È di ordine dorico, periptero esastilo, con una peristasi di 6 x 13 colonne, a imitazione del Tempio della Concordia con cui condivide le dimensioni generali e alcune singole misure.
Le colonne, alte 6 metri e 44 centimetri, sono costituite da 4 rocchi ciascuna. Il nàos, oggi perduto, era privo di colonnato interno, doppiamente in antis e dotato di prònaos e opistòdomos. L’edificio, come quasi tutti i templi agrigentini, venne distrutto dai cristiani per ricavarne materiale da costruzione. È quindi ridotto allo stato di rudere. Davanti al tempio, si trovano ancora i resti dell’ara sacrificale.
Tempio della Concordia
Il Tempio della Concordia è un tempio dorico periptero di età classica, edificato intorno al 430 a.C. Costruito con un calcare conchiglifero locale, che gli dona una suggestiva tinta dorata, è considerato, per il suo stato di conservazione, uno degli edifici sacri più belli dell’antichità. Non si sa a chi fosse dedicato; il nome «Tempio della Concordia» risale al XVI secolo ed è frutto di una interpretazione fantasiosa delle fonti. Intorno al 590-597 d.C. fu trasformato in basilica cristiana e dedicato ai santi Pietro e Paolo. A quell’epoca risale l’apertura di alcuni archi nelle pareti della cella (6 per lato). Rimase una chiesa fino al 1790 circa: circostanza che ha favorito il mantenimento di un buono stato di conservazione.
Il tempio si innalza su un basamento (crepidòma) formato da quattro gradoni. La peristasi che circonda il naòs è di 6 x 13 colonne. Il tempio è quindi esàstilo. Sullo stilòbate del crepidòma, ossia il gradino superiore, si appoggiano direttamente i fusti delle colonne, senza base. Ogni colonna, alta 6,67 metri, ha il fusto scanalato con 20 scanalature. L’entasi del fusto si trova verso i 2/3 dell’altezza. La colonna è solo lievemente rastremata; essendo il tempio del V secolo a.C., il suo fusto è quasi cilindrico.
L’echino del capitello, poco sporgente, è simile a una tazza. La trabeazione, costituita da architrave, fregio e cornice,
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Clarice Cliff e gli oggetti dell’Art Déco
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L’Esposizione Internazionale di Parigi del 1900 si era dimostrata poco aperta alla celebrazione di uno dei miti essenziali del XX secolo: l’arte decorativa. La produzione art nouveau, dai complementi d’arredo all’architettura, aveva trovato uno spazio espositivo molto limitato. Una ripresa di interesse nei confronti delle arti applicate, da parte di pubblico e critica, si ebbe grazie ad una iniziativa italiana: nel 1902, Torino organizzò la prima edizione di una Esposizione Internazionale delle Arti Decorative Moderne. L’esperienza si sarebbe ripetuta nella capitale francese nel 1907, se una serie di circostanze avverse, non ultima la tensione politica tra gli stati che avrebbe condotto allo scoppio della guerra, non avesse bloccato l’iniziativa. Solo nel 1925, si riuscì ad organizzare a Parigi l’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative e industriali moderne, da cui fu desunto il nome per il fenomeno che seguì all’Art Nouveau e che segnò il gusto europeo e americano del ventennio successivo: l’Art Déco. Con questo termine, o con quello ugualmente diffuso di Stile 1925, si classificano oggetti di design, motivi decorativi, lavori di grafica e perfino alcune opere di pittura, scultura e architettura realizzate in Europa e negli Stati Uniti fra il 1915 e il 1940.
Lalique
L’arte del vetro ebbe una notevole importanza per l’affermazione dell’Art Déco. Gli architetti attribuirono sempre a questo materiale un ruolo all’interno dei loro progetti e le grandi vetrate déco, che arricchiscono gli edifici realizzati negli anni Venti e Trenta, costituiscono ancora oggi una testimonianza quanto mai significativa di questo stile. In Europa, l’artista del vetro più famoso ed influente fu il francese René Lalique (1860-1945), già protagonista indiscusso della precedente Art Nouveau.
Lalique aveva iniziato la sua carriera come orafo, conquistando uno straordinario successo internazionale con i suoi magnifici gioielli. A partire dagli anni Venti, la sua ditta produsse centinaia di modelli di boccette di profumo, scatole, vasi, orologi e ancora lampade, cornici per fotografie e servizi da tavola: pezzi, in vetro lavorato e talvolta colorato, caratterizzati per la loro luminosa opalescenza. Lalique realizzò anche monumentali complementi per l’architettura: ricordiamo solo i pannelli con figure per i più grandi hotel inglesi e americani. Il successo incontrastato di questo artista incoraggiò molte altre vetrerie ad imitare la sua produzione ma la tecnica segreta e impareggiabile di Lalique non fu mai eguagliata.
I fratelli Daum
Tra gli opifici più rinomati dell’epoca, è da ricordare anche la celebre industria francese dei fratelli Daum, che aveva prodotto vetri art nouveau dal 1880 al 1900. I loro oggetti déco in vetro inciso o porcellana, realizzati soprattutto negli anni Trenta, si caratterizzarono per il frequente ricorso a motivi floreali fortemente stilizzati e a forme decorative geometriche, soprattutto linee rette e forme circolari combinate, in modo da creare composizioni astratte dove potevano inserirsi frutti, motivi floreali o paesaggi stilizzati.
La forma più comune di vasi, tazzine e teiere era piuttosto semplice, priva di elementi superflui; talvolta invece, questi oggetti assumevano forme molto irregolari, senza dubbio originali ma, nel complesso, poco funzionali.
Hoffmann e Gio Ponti
Hoffmann, grande protagonista dell’Art Nouveau austriaca, continuò la sua produzione di oggetti anche durante la stagione Art Déco. Le scanalature e le bande verticali delle sue tazze e dei suoi vasi costituirono uno dei motivi decorativi più diffusi di questo stile.
L’architetto italiano Gio Ponti (1891-1979) è considerato tra le figure più rappresentative nel settore della produzione di ceramica nel periodo Art Déco. Direttore della ditta di porcellane e ceramiche Richard Ginori dal 1923, ideò una serie di oggetti originali per forma e decoro.
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Da Van Gogh a Kierkegaard. La chiesa di Auvers
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Vincent van Gogh (1853-1890) fu un pittore olandese, tra i più importanti del XIX secolo e di tutti i tempi. In pochi anni di attività, dipinse quasi novecento quadri e realizzato più di mille disegni. Con la sua arte fortemente espressiva, influenzò profondamente l’arte del Novecento. Fu sempre un uomo difficile, angosciato e come tale distruttivo per sé stesso e per gli altri. Un infelice che procurava infelicità.
Non sorrideva mai. Era sempre trasandato, capelli rossi arruffati e barba incolta. Anche il suo comportamento era strano: stava a lungo zitto, poi iniziava a parlare e non la smetteva più.
Tutti lo consideravano bizzarro, ma per molti era proprio matto e così la gente lo evitava. Infatti, Vincent soffrì tantissimo di solitudine. Poco prima del Natale 1888, in preda a una crisi, Vincent si tagliò l’orecchio sinistro. Venne prima ricoverato presso l’ospedale di Arles, poi nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy, dove dipinse capolavori intensi, tra cui La notte stellata. Nel 1890, si trasferì ad Auvers-sur-Oise, presso Parigi, per essere curato dal dottor Paul Gachet. Ma il suo equilibrio psichico era molto compromesso, la vita gli appariva come bloccata dal dolore. L’unica forma di consolazione rimase la pittura.
La chiesa di Auvers
Ad Auvers, appena un mese prima di morire, Van Gogh volle dipingere la piccola chiesa del paese, dedicata a Notre-Dame, un minuscolo edificio gotico del XII-XIII secolo. Leggiamo in una lettera indirizzata alla sorella Wilhelmina: «Ho un’immagine più grande della chiesa del villaggio, con effetto in cui la costruzione sembra essere viola contro un cielo di semplice blu scuro, cobalto puro; le finestre sembrano come macchie di blu oltremare, il tetto è violetto e in parte aranciato.
Sullo sfondo, alcune piante in fiore e sabbia con il riflesso rosa del sole. Ed ancora una volta è simile agli studi che ho fatto a Nuenen della vecchia torre del cimitero, solo probabilmente ora il colore è più espressivo, più sontuoso». Van Gogh aveva scelto, per rappresentare la chiesa, una veduta absidale. Come suo solito, aveva trasformato completamente ciò che si trovava davanti ai suoi occhi.
Un pieno di Cielo
Nel quadro di Vincent, intitolato La chiesa di Auvers, il sentiero in primo piano che si biforca così come il prato che circonda l’edificio sono diventati incerti e malfermi. Anche la chiesa presenta forme fluide e ondulate, con un effetto vagamente ipnotico. La terra si agita e in tal modo esprime l’agitazione interiore dell’artista. Il cielo invece, simbolo del divino, è calmo e sembra entrare nell’edificio e riempirlo totalmente; un Cielo che richiama chiaramente la fede di Vincent, l’unica àncora che gli restava per contrastare la perdita del dominio di sé.
Sappiamo che in Van Gogh il pessimismo esistenziale, oramai radicato in modo profondo e come tale inestirpabile, conviveva a fatica con una fede coltivata negli anni, contrastata, vacillante ma mai del tutto ricusata. Una fede (in Dio, innanzi tutto, ma anche nella vita) che non sarebbe stata sufficiente a salvarlo ma che fino all’ultimo, come dimostra questo dipinto, accompagnò la sua faticosa esistenza.
L’esistenzialismo di Kierkegaard
Questa particolare posizione esistenziale richiama il pensiero del filosofo e teologo ottocentesco Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855), considerato da molti studiosi il precursore dell’esistenzialismo. Profondamente segnato da alcuni lutti familiari e soprattutto dalla rigidissima educazione impartitagli dagli anziani genitori, Kierkegaard fu, come Vincent, un uomo profondamente introspettivo e malinconico. «Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia, la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere»: così racconta il filosofo, che giunse a credersi oggetto di una maledizione divina,
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L’architettura micenea
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Verso l’inizio del secondo millennio a.C., gli Achei si stabilirono nel Peloponneso, una regione della penisola greca; qui fondarono alcuni importanti centri urbani: Pilo, Argo, Tebe, Atene, Tirinto e Micene, città, quest’ultima, da cui prese il nome l’intera civiltà. Ogni città micenea era dotata di un palazzo fortificato, dove risiedevano il re e alcuni guerrieri. I Micenei affermarono la loro potenza intorno al 1450 a.C., dopo aver occupato l’isola di Creta e distrutto i suoi gloriosi palazzi. Da quel momento, furono i Micenei e non più i Cretesi a dominare sul Mediterraneo. L’architettura micenea
Attorno al 1250 a.C., i re del Peloponneso, cui la tradizione ha dato un nome, Agamennone e Menelao, strinsero alleanza per una comune spedizione contro Troia, ricca città della costa anatolica che controllava gli accessi al Mar Nero. La difficile conquista e la distruzione di Troia, cantate nell’Iliade e nell’Odissea da Omero, poeta epico greco dell’VIII secolo a.C., furono pagate a caro prezzo dai Micenei: pochi decenni dopo, infatti, ebbe inizio il loro declino, lento ma progressivo. I Micenei subirono infine l’invasione dei Dori, un popolo greco giunto da Nord. Nel 1100 a.C. la loro civiltà fu cancellata ed ebbe inizio la cosiddetta “età oscura” o Medioevo ellenico.
Mura possenti
L’immagine tradizionale che la storia ci ha tramandato dei Micenei è quella di un popolo guerriero e aggressivo. In effetti, l’architettura micenea riflette il carattere di una civiltà chiusa e rigidamente strutturata e la sua prima funzione fu, prima di tutto, difensiva. I palazzi e le città micenee avevano l’aspetto di solide fortezze, difficilmente accessibili, perché circondate da mura spesse e imponenti. A Micene, le mura sono alte 13 m, per uno spessore di 6, e sono costituite da blocchi di pietra che pesano fino a 6 tonnellate; quelle di Tirinto sono spesse 11 m e in alcuni tratti addirittura 20, tanto da essere attraversate al loro interno da un corridoio percorribile. Si stima che i blocchi più grandi delle mura di Tirinto pesino circa 20 tonnellate.
Il palazzo reale
Il tipico palazzo reale acheo, come quello di Tirinto, benché affrescato alla maniera cretese, fu assai diverso dal modello minoico: era, innanzi tutto, molto più semplice e organico, con parecchi ambienti ma ordinati razionalmente. Presentava, nel suo complesso, un aspetto compatto; il centro della sua architettura non era, come nel palazzo cretese, la grande piazza-cortile ma un imponente nucleo di rappresentanza, chiamato nel suo complesso mègaron, che si affacciava su un piccolo cortile porticato. L’architettura micenea
Il mègaron miceneo
Il mègaron propriamente inteso era la sala del trono, di forma rettangolare, munita di focolare circolare al centro e con il tetto sostenuto da quattro colonne. Il mègaron era preceduto da un’antisala, o pròdromos, e questa da un portico d’ingresso, o vestibolo, cioè un vano di passaggio dotato di colonne di legno su basi di pietra. Si accedeva dal vestibolo all’antisala attraverso tre porte e da questa al mègaron per una sola porta. Nel mègaron, splendidamente ornato, il sovrano riceveva gli ospiti e gli ambasciatori, organizzava i pranzi ufficiali e rituali e assisteva agli spettacoli per lui allestiti.
L’area archeologica di Micene
Micene, fondata a nove chilometri da Argo, fu una delle più importanti città della civiltà achea in Grecia. Raggiunse la sua massima fioritura tra il 1600 e il 1100 a.C. Le testimonianze architettoniche più importanti risalgono, comunque, al periodo compreso fra il 1350 e il 1250 a.C. All’epoca, la città contava circa 30.000 abitanti, inclusi quelli che vivevano fuori dalle mura. È a questa fase della storia di Micene che si fa risalire il tracciato definitivo del suo potente sistema difensivo, formato da grandiose mura a strapiombo che facevano apparire il nucleo della città imponente e inaccessibile. Il suo sito archeologico,
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Martini e Petrarca
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A Siena, già dalla metà del XIII secolo, la prosperità economica, l’apertura verso i grandi mercati d’Oriente e d’Occidente, nonché la presenza di Nicola e Giovanni Pisano nei cantieri del Duomo avevano avviato fin dal Duecento la fioritura di una civiltà artistica che aveva trovato il suo più autorevole protagonista nel pittore Guido da Siena. Fu tuttavia nel Trecento, con Duccio, ideale antagonista di Giotto, che la pittura senese si propose come polo alternativo a quello fiorentino; il grande maestro e i suoi discepoli (soprattutto Simone Martini, Pietro e Ambrogio Lorenzetti), pittori di livello eccelso, fondarono in tal modo una sorta di “scuola” i cui caratteri distintivi, felicemente trapiantati in Europa, dalla Francia alla Sicilia, si mantennero pressoché invariati sino al Quattrocento inoltrato, opponendosi di fatto, sia pure senza successo, alla diffusione del nuovo linguaggio rinascimentale. Martini e Petrarca
Martini a Siena
Non è rimasto nulla della prima produzione di Simone Martini (1284-1344), per cui è difficile ricostruire la sua formazione; la frequentazione della bottega di Duccio, tuttavia, non viene messa in discussione. La prima opera certa dell’artista è la Maestà commissionatagli dal governo dei Nove, signori di Siena, e affrescata all’interno del Palazzo Pubblico fra il 1313 e il 1315, nonché ritoccata dallo stesso autore nel 1321. Il grande dipinto occupa tutta la parete d’onore della maggior sala, che un tempo si chiamava Sala del Consiglio o della Balestra e poi nota come Sala del Mappamondo.
Simone, all’epoca, era un artista trentenne già maturo, non condizionato dai legami con la tradizione bizantina e proiettato verso un linguaggio internazionale. Nonostante, o forse proprio in forza della sua adesione al Gotico europeo, appariva desideroso di competere con Giotto. La scelta da parte del governo senese di affidare la realizzazione di quest’opera proprio a lui, con Duccio ancora in vita, può spiegarsi solo ipotizzando che i maggiorenti della città avessero considerato il linguaggio del discepolo più aggiornato e moderno di quello del maestro. Nell’opera del Martini domina, infatti, una sublime eleganza, che avvicina l’opera al gusto d’Oltralpe, soprattutto francese. Martini e Petrarca
Simone conferì alla sua Maestà lo splendore cromatico di un’opera di oreficeria. Egli arricchì la superficie pittorica con vetri colorati, parti metalliche dipinte, foglie d’oro zecchino, rilievi a stucco, inserti di carta, che solo in parte si sono conservati. A un primo sguardo, le parti più antiche dell’affresco evidenziano la forte influenza della lezione duccesca. Nel contempo, un maggiore respiro spaziale testimonia che Martini aveva già elaborato uno stile del tutto personale, che contemplava anche una certa affinità con l’arte di Giotto.
Ad Assisi
Nel 1312, il cardinale Gentile Partino da Montefiore, si recò a Siena dove incontrò Martini. In tale occasione, lo incaricò di affrescare la Cappella di San Martino, la prima a sinistra nella Basilica Inferiore di San Francesco ad Assisi, da lui voluta e fatta costruire. Il cardinale non fece in tempo a vedere i lavori ultimati perché morì prima, anche se l’artista portò ugualmente l’opera a termine. La decorazione della cappella avvenne in tre fasi, tra il 1313 e il 1318. In questo lasso di tempo, infatti, Simone fece la spola tra Assisi, Siena (dove stava dipingendo la Maestà) e Napoli, per seguire contemporaneamente diverse commissioni. Martini e Petrarca
Il ciclo di dieci affreschi racconta le Storie di san Martino. L’influenza di Giotto è assai evidente nel realismo delle architetture e nel gioco chiaroscurale delle luci e delle ombre, che tiene conto della posizione delle finestre. Tuttavia, Simone scelse di presentare il tema sacro attraverso un’interpretazione profana e cortese, cogliendo un’occasione privilegiata per esprimere ideali di tipo cavalleresco.
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Le basiliche di San Lorenzo e di Santo Spirito di Brunelleschi
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Filippo Brunelleschi (1377-1446), scultore, architetto, ingegnere e matematico, è riconosciuto da tutti come il padre del Rinascimento. È stato il primo a chiudere la stagione del Gotico e a riportare l’arte e l’architettura sulla strada del classicismo, riconoscendo l’arte classica come modello assoluto. Vasari, nel Cinquecento, scrisse che «Ei ci fu donato dal cielo per dar nuova forma all’architettura». Le basiliche di Brunelleschi
Iniziò la sua carriera come orafo, poi divenne scultore e partecipò al concorso per la porta del Battistero fiorentino. Tuttavia, la grandezza di Brunelleschi è legata alla sua attività di architetto. Come ben espresse Vasari, Brunelleschi non si limitò a trasformare il repertorio gotico adottando nuovamente l’ordine architettonico classico (il corinzio, per esattezza) e l’arco a tutto sesto in sostituzione di quello a sesto acuto; imitando gli antichi, egli elaborò un metodo progettuale rigoroso, e fu il primo a creare una nuova figura professionale di architetto.
San Lorenzo
Nel 1420, Giovanni di Bicci dei Medici (1360- 1429), padre di Cosimo, incaricò Brunelleschi di progettare una cappella funebre per la sua famiglia, adiacente al transetto sinistro della Basilica paleocristiana di San Lorenzo. Filippo vi lavorò per sette anni, dal 1421 al 1428. Questo piccolo ambiente, poi chiamato Sagrestia Vecchia, è considerato un capolavoro del primo Rinascimento, anche perché vi lavorarono, assieme a Brunelleschi, Donatello e Michelozzo, che contribuirono (in una seconda fase) alla sua decorazione. L’opera è l’unica che il grande architetto portò a termine durante la sua vita, curandola fino al termine dei lavori.
Tra il 1418 e il 1421, su richiesta del priore della Basilica di San Lorenzo, la Signoria di Firenze concesse il permesso di abbattere la vecchia chiesa paleocristiana per ricostruirla in forme moderne. Il principale sostenitore e finanziatore dell’impresa fu Giovanni di Bicci dei Medici, già committente della Sagrestia Vecchia, che chiese e ottenne di affidare l’opera al suo architetto Brunelleschi.
Filippo concepì il grandioso progetto di una basilica interamente circondata da grandi cappelle, inclusa la sua Sagrestia Vecchia, con un ampio spazio cruciforme a una sola navata. Tuttavia, Giovanni dei Medici, e dopo di lui Cosimo, non accettarono la sua proposta perché sarebbe risultata troppo costosa. Brunelleschi, in disaccordo con Cosimo, abbandonò il cantiere che venne affidato ad Antonio Manetti Ciaccheri (1402-1460).
La pianta della chiesa poi realizzata, divisa in tre navate, è ottenuta dalla ripetizione di campate quadrate tutte uguali, ognuna delle quali è adottata come modulo di base. Le due navate laterali si dividono in una serie regolare di cubi immaginari sormontati da volte a vela. Le pareti sono decorate da lesene che inquadrano gli archi a tutto sesto delle attuali cappelline, le quali, però, non rispettano più questo principio di modularità, come Brunelleschi avrebbe coerentemente voluto.
Santo Spirito
Progettata nel 1428 ma iniziata nel 1444, la Basilica di Santo Spirito fu completata dopo la morte di Brunelleschi; tuttavia, rispetto alla Basilica di San Lorenzo, essa venne realizzata con maggiore fedeltà al progetto originario. Ha una pianta a croce latina costruita utilizzando come modulo le campate quadrate delle navate minori coperte a vela, che proseguono oltre il transetto e intorno al coro, realizzando una sorta di deambulatorio. Sulle campate si affacciano, lungo l’intero perimetro basilicale, quaranta cappelline semicircolari, che nell’intenzione di Filippo avrebbero dovuto mostrare all’esterno la propria convessità, ma furono poi nascoste da una più tradizionale parete continua.
Il dado brunelleschiano
Brunelleschi inaugurò una nuova stagione culturale, perché adottò sistematicamente l’ordine corinzio, l’arco a tutto sesto e, ispirandosi agli antichi,
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Fidia. La decorazione del Partenone
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Lo scultore ateniese Fidia (490 a.C.ca.-430 a.C.ca.), l’artista più ammirato e celebrato dell’antichità, è considerato uno degli esponenti più autorevoli della straordinaria stagione classica. La sua fortuna è legata alla produzione di alcune sculture monumentali e grandiose, tra cui l’Athena Parthènos del Partenone ad Atene e soprattutto lo Zeus Olimpio del Tempio di Zeus a Olimpia, celebrato come una delle sette meraviglie del mondo. Egli fu, soprattutto, l’artefice della magnifica decorazione scultorea del Partenone, il principale tempio dell’Acropoli di Atene, giunta sino a noi in buona parte, anche se in condizioni molto frammentarie. La decorazione del Partenone
La decorazione del Partenone
Per la decorazione scultorea del Partenone, Fidia si occupò non solo della monumentale statua di Athena Parthènos per il nàos del tempio ma anche delle sculture a tutto tondo dei frontoni e dei bassorilievi dei due fregi: quello dorico della trabeazione e quello continuo, detto ionico, che correva in alto sulle pareti della cella. Questo impegno occupò l’artista per ben quindici anni. Fidia fu l’ideatore ma non l’autore delle figure del Partenone; in altre parole, non le scolpì con le proprie mani, almeno non tutte. Una decisione del genere avrebbe comportato tempi di attuazione lunghissimi. Fidia certamente coordinò un nutrito gruppo di artisti e, al fine di uniformare il lavoro, seguì di persona la realizzazione delle sculture, intervenne, guidò, riprese, corresse.
La logica e la verifica sui frammenti rimasti ci spingono a ipotizzare che maggiore fu la sua attenzione, e quindi più consistente il proprio impegno personale, laddove l’opera richiedeva un più alto livello rappresentativo: massima, dunque, per la scultura del nàos e per le sculture frontonali, che difatti sono di qualità eccelsa, minore per il fregio ionico, minima per le metope, delle quali forse si limitò a consegnare i disegni o i modelli, lasciando ampi margini di libertà ai collaboratori. Si deve anche considerare che Fidia si trasferì ad Olimpia nel 438 a.C. e che quindi, dopo questa data, non poté nemmeno seguire l’attività del gruppo con regolarità.
Le sculture di Fidia rimasero al loro posto per oltre duemila anni, finché, nel 1801, l’ambasciatore britannico a Costantinopoli, Lord Elgin, ottenne dal Sultano l’autorizzazione a prelevare alcuni pezzi del Partenone, promettendo di non danneggiare la struttura. In realtà strappò al tempio tutte le sculture che riuscì a trasportare in Inghilterra. È per questo che i capolavori di Fidia sono oggi conservati al British Museum di Londra. La decorazione del Partenone
I frontoni
Il Frontone orientale raffigurava il tema della Nascita di Athena dalla testa di Zeus, al cospetto di altri dèi. Poche le sculture del frontone orientale rimaste più o meno integre (se ne sono salvate solo otto su ventuno); tra queste, il bellissimo nudo sdraiato di Dioniso e il gruppo di Leto, Dione e Afrodite. Tutte le sculture furono perfettamente compiute e definite nei dettagli, anche nella loro parte posteriore, benché, data la loro collocazione, certe finezze non sarebbero mai state apprezzabili ad occhio nudo.
Il Frontone occidentale era invece decorato da una scena più complessa, che descriveva la Gara tra Athena e Poseidone per la conquista dell’Attica. Anche di questo frontone sono rimasti pochi frammenti di statue, tra cui la personificazione del fiume Cèfiso.
Il Fregio ionico
Il Fregio ionico, un tempo vivacemente colorato, si sviluppava per 160 metri sulla parete esterna della cella; se ne sono conservati 130 metri, cioè l’80% circa, oggi dislocati, a pezzi, in vari musei d’Europa. I suoi rilievi illustravano la Processione delle Panatenee, la più importante festa civile e religiosa della città, dedicata ad Atena. Le figure sopravvissute sono in tutto 355, realizzate con un bassorilievo molto schiacciato e con un aggetto di appena cinque centimetri.
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Disney, Dalì, il cinema e il Surrealismo
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Il cinema ha avuto da subito un rapporto privilegiato con l’arte. Sono stati molti, nel corso del Novecento, i registi che si sono più o meno esplicitamente ispirati a opere famose per inquadrare certe loro scene, a volte spingendosi fino alla citazione, oppure che si sono ispirati a certi linguaggi pittorici, nella scelta delle scenografie, delle inquadrature o delle luci. In fondo, il cinema non è altro che l’evoluzione della fotografia, che a sua volta si era ispirata alla pittura. In alcuni casi, sono stati invece gli artisti a prendere posizione rispetto al mondo del cinema, con contributi critici oppure partecipando direttamente alla stesura delle sceneggiature o alla realizzazione delle scenografie.
De Chirico e il cinema
Il pittore metafisico Giorgio de Chirico (1888-1978), per esempio, realizzò diverse scenografie e costumi per cinema e teatro. Nel suo Discorso sul cinematografo del 1943, propose diverse riflessioni sulle possibilità espressive del cinema. Secondo il pittore, la cosiddetta “settima arte” ha lo straordinario potere di «trasportare lo spettatore al di là della propria esistenza, in un mondo dove si può vivere una vita emotivamente più intensa, più intima e per certi versi più vera. Le immagini cinematografiche per il pittore sono come fantasmi, in grado di suscitare profonde emozioni, fatte più di spirito che di materia, e incarnare gli aspetti misteriosi, profondi e insondabili della vita» (V.Polito).
Dalí e il cinema
Anche i surrealisti dimostrarono sempre un vero e proprio entusiasmo per il cinema e gli riconobbero il potere di svelare la “surrealtà” e di liberare negli spettatori le forze dell’inconscio, allo stesso modo della loro pittura. André Breton (1896-1966), teorico del Surrealismo, nel primo Manifesto Surrealista definì il cinema «un occhio artificiale capace di riprendere uno spazio virtuale in cui immagini e realtà si fondono», in cui si incontrano le dimensioni del sogno e della vita. Salvador Dalí (1904-1989), fra i pittori surrealisti, fu quello che mostrò sempre il maggiore interesse per la cinematografia. Tra il 1928 e il 1929, pubblicò degli articoli in cui spiegò che in un film si potevano proporre immagini che sembravano provenire direttamente dall’inconscio.
Dalí e Buñuel
I film propriamente surrealisti sono davvero pochi, e i due principali videro coinvolto Dalí in prima persona. Con il regista d’avanguardia spagnolo Luis Buñuel (1900-1983), il pittore realizzò, nel 1929, Un chien andalou, considerato una pietra miliare del cinema surrealista. Nel 1930, Dalí collaborò nuovamente con Buñuel, scrivendo alcune delle scene presenti in un altro film, L’âge d’or. In un susseguirsi di immagini che abbandonano la logica lineare della narrazione per disorientare lo spettatore, Buñuel e Dalí affrontarono temi cari al Surrealismo, come la dimensione onirica e psicoanalitica, l’istinto sessuale e la tensione erotica.
Nel cinema surrealista, come nella pittura, le immagini sono infatti simboliche e paradossali, il tempo e lo spazio vengono contratti o dilatati, senza alcuna aderenza alla realtà. Buñuel aveva affermato: «Io sono per un cinema che […] mi darà una visione integrale della realtà, accrescerà la mia conoscenza delle cose e delle creature, e mi spalancherà il meraviglioso mondo dell’ignoto». Buñuel concepiva il cinema come qualcosa di irriverente, utile a smontare la realtà convenzionale e la rappresentazione naturalistica per andare oltre l’apparenza delle cose. Ogni film, infatti, consente al pubblico di intraprendere un viaggio verso l’ignoto, accedendo a una dimensione poetica e misteriosa.
Un chien andalou
Un chien andalou (Un cane andaluso) è un cortometraggio di circa 20 minuti, le cui scene, apparentemente prive di coerenza narrativa e cronologica, si configurano come un vero e proprio delirio onirico. La sceneggiatura venne scritta in meno di una settimana,
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Turner, Kant e la Natura imprevedibile
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Il Romanticismo è stato un movimento letterario, culturale e artistico sviluppatosi parallelamente al Neoclassicismo e che, a differenza di questo, ha affermato il valore del sentimento e della passionalità nella vita di ogni individuo. Ha esordito nella seconda metà del Settecento (primo Romanticismo, 1770-1815) e ha raggiunto la massima espressione nella prima metà dell’Ottocento (Romanticismo maturo, 1815-1850).
In Inghilterra, sono state formulate due fondamentali definizioni legate all’arte romantica: il pittoresco e il sublime. Il pittoresco si identifica con tutto ciò che è spontaneo, che non segue gli schemi. Il sublime è, invece, quel particolare sentimento che nasce dall’ammirazione di qualcosa di grande e di spettacolare, che suscita in noi terrore e piacere allo stesso tempo.
Turner
William Turner (1775-1851) è stato un pittore inglese, tra i principali esponenti del Romanticismo europeo. Grande paesaggista, attraverso la rappresentazione della Natura ha voluto esprimere il senso tipicamente romantico del sublime. Uomo dal carattere difficile, solitario, tormentato, Turner espresse tutto il suo disagio nei confronti della vita attraverso gli spettacoli di una natura aggressiva, turbinosa, agitata da burrasche e bufere, capace di travolgere, a suo capriccio, un’umanità inerme e indifesa. Turner dipinse, ad olio e ad acquerello, soprattutto il mare, in ogni condizione: calmo, agitato, in tempesta. Le forme spesso appaiono confuse, ma l’intento dell’artista era quello di comunicare emozioni.
Visioni interiori
Come sostenne lo scrittore francese Charles Baudelaire nel suo saggio Che cos’è il Romanticismo (del 1846), il Romanticismo non risiede «nella scelta dei soggetti, né nella verità esatta, ma nel modo di sentire»; sicché, «mentre alcuni lo hanno ricercato nel dato esteriore, è possibile trovarlo solo nell’interiorità». Per questo, l’artista romantico indaga «gli aspetti della natura e le situazioni dell’uomo che gli artisti del passato hanno sdegnato o misconosciuto».
Turner può essere considerato tra i più grandi interpreti di questa visione interiore, proiettata all’esterno sullo spettacolo del mondo. Privato dell’appoggio della Storia e delle vuote forme stilistiche della tradizione, Turner cercò rifugio nella Natura, intesa come forza onnipotente e indomabile, dotata di una bellezza inimitabile. Soltanto l’espressione vitale e autentica della Natura poteva fornire qualche risposta alle domande dell’artista e dell’uomo sul significato dell’esistenza. Così, lo sviluppo vivo e inesauribile delle forze naturali si tradusse, agli occhi di Turner, nell’esempio della spontaneità più vera, sollecitando la sua creatività istintiva e spregiudicata. Possiamo dire che Turner riconsiderò non solo il genere tradizionale del paesaggio ma l’idea stessa della pittura.
La Natura secondo Kant
Non c’è dubbio che questa potentissima concezione della Natura, questo senso dirompente per il sublime che guidarono il lavoro di Turner trovano sponda nel pensiero del filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804), per il quale il sentimento del sublime costituisce l’opportunità di un riscatto dell’uomo sulla Natura. Esso può sorgere dinanzi all’infinità quantitativa (sublime matematico) o accendersi allo spettacolo delle forze travolgenti del creato (sublime dinamico).
Kant considerava la Natura come contingente e imprevedibile. Essa è difficile da conoscere e da inquadrare in leggi sempre più generali. Non è possibile, insomma, unificare interamente la Natura nel sistema del sapere umano. Secondo il filosofo, l’uomo, che non conosce “le cose in sé”, non può affermare in modo definitivo né che il mondo è sensato e organizzato ma nemmeno che esso è insensato e disorganizzato. Il mondo può essere solamente sperimentato, attraverso la sensibilità. Kant identifica la sensibilità con il “sentimento”: ciò che davvero conta non è tanto percepire qualcosa del mondo estern...
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Arte Svelata
Schiele, Montale e il mal di vivere
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Una delle principali testimonianze del mal di vivere del primo Novecento fu la pittura di Egon Schiele (1890-1918), esponente dell’Espressionismo austriaco sviluppatosi nel contesto della Secessione viennese. Schiele, infatti, fu allievo di Klimt, che ancora agli inizi del Novecento era in attività e considerato da tutti un grande maestro e un modello da imitare.
Egon fu artista sensibilissimo e tormentato. La sua dolorosa condizione esistenziale fu espressa prima di tutto dai molti autoritratti. Il pittore si mostra completamente nudo. Il suo corpo magro sembra malato; non si tratta di una malattia fisica: l’artista intende mostrare la malattia della propria anima.
Alberi e girasoli
Schiele amava osservare «il movimento corporeo delle montagne, dell’acqua, degli alberi e dei fiori. Dappertutto possiamo notare movimenti simili a quelli del corpo umano». «Interiormente, nel segreto del proprio essere e del proprio cuore, anche in piena estate si può vedere e sentire un albero autunnale. […] Tutto ciò che sta vivendo è già morto». Così scrisse, nell’agosto del 1912. Schiele, dunque, proiettò il proprio mal di vivere anche nei suoi splendidi paesaggi, segnati da alberi isolati e spogli e da fiori dalle evidenti qualità antropomorfe. La natura di Schiele ci pone in contatto diretto con la triste verità del vuoto dell’esistenza, esprime una visione sconfortata del mondo e della vita; è, dunque, puramente simbolica. I suoi alberi magri, i lunghi girasoli sfioriti ci parlano di tristezza e solitudine.
Ad esempio, in Albero d’autunno, attraverso la rappresentazione della pianta secca e avvizzita, Schiele racconta l’esperienza angosciosa della precarietà. Quest’albero ritorto è, prima di tutto, l’immagine scarna ed essenziale di sé stesso e a un tempo la tragica prefigurazione della morte che lo attende.
Altrettanto si può dire per la sua serie dei Girasoli, che richiama quella, ben più nota, di Van Gogh: con la differenza che il vitalismo dei fiori vangoghiani si è come spento, esaurito. I girasoli di Schiele sono riarsi, appassiti, rinsecchiti. Mentre, nel loro trionfo di giallo, i girasoli di Van Gogh rendevano omaggio alla vita ed esprimevano un anelito di speranza, quelli di Schiele testimoniano la presa d’atto della disillusione.
Il suo Girasole del 1909-10, alto e magro, è ancora una volta una sorta di autoritratto simbolico, perché secco, malato, incapace di reggere il peso della sua grande testa sullo stelo lungo e dritto, compresso nello spazio strettissimo della tela, prossimo alla morte. I girasoli di Schiele sono privi di forza e di vitalità, sono fiori inetti, tragicamente prigionieri del proprio isolamento.
Da Schiele a Montale
«Portami il girasole ch‘io lo trapianti / nel mio terreno bruciato dal salino, / e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti / del cielo l’ansietà del suo volto giallino. Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in musiche. Svanire / è dunque la ventura delle venture. / Portami tu la pianta che conduce / dove sorgono bionde trasparenze / e vapora la vita quale essenza; /portami il girasole impazzito di luce». Così scriveva, nel 1923, il poeta italiano Eugenio Montale (1896-1981), che di Schiele fu quasi coetaneo, nella poesia intitolata Portami il girasole ch’io lo trapianti, contenuta nella raccolta Ossi di seppia, edita nel 1925.
C’è tutta la forza di una preghiera, in questi versi, e, nel contempo, la confessione della debolezza del poeta, la cui anima è presentata come un terreno bruciato dal salino. Il giallo del girasole (come, altrove, sempre nella poesia montaliana, quello dei limoni), è fonte di tenera consolazione, allevia il disincanto del poeta, per cui tutto, alla fine, altro non è che un’illusione. Montale ritiene che la poesia (come, per certi versi, l’arte) non sia in grado di portare ordine nel caos interiore dell’uomo,
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Arte Svelata
Chagall e Nietzsche
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Marc Chagall (1887-1985), il cui nome ebraico era Moishe Segal, è stato un pittore russo naturalizzato francese, autore di scene romantiche e da sogno. Fu esponente della cosiddetta École de Paris o Scuola di Parigi. Gli studiosi vi raggruppano alcuni artisti stranieri attivi a Parigi tra il 1910 e il 1940, che non è facile collocare in veri e propri movimenti, ma che sono legati all’esperienza espressionista. Tra questi si distinguono Chagall e Modigliani.
Come una favola
La pittura di Chagall raffigura il mondo dei sogni ed è caratterizzata da una fortissima vena poetica. L’artista spiegò che la pittura gli era necessaria come il pane, gli sembrava come una finestra da cui avrebbe potuto fuggire. Nei suoi originalissimi dipinti, egli affrontò sempre tematiche legate all’amore coniugale, alla famiglia, alla struggente nostalgia per la sua infanzia e per il suo paese. Spesso si ispirò alle favole di quando era bambino.
I suoi personaggi (giovani fidanzati, sposi immersi in mondi fantastici, animali simbolici, saltimbanchi e suonatori) sembrano tutti fatati, volano in cielo, sui tetti delle case come palloncini, leggeri, felici, senza preoccupazioni. È soprattutto alla moglie Bella, l’amore di tutta la vita, la sua musa ispiratrice, che Chagall dedicò i dipinti più teneri e toccanti.
Persi nel blu
Marc Chagall è stato il pittore dell’amore ma soprattutto il pittore del volo. Resi leggeri dalla loro capacità di amare, i personaggi dei suoi dipinti vengono letteralmente sospinti verso intensi cieli blu e in essi si librano. Vestiti di bianco (colore della purezza), sospinti da un soffio magico e invisibile, gli uomini e le donne di Chagall volteggiano nel cielo blu sorvolando paesi e città, superando distese di cupole o di tetti addormentati, non di rado mostrati con le gambe divaricate, simili a ballerini o saltimbanchi.
Il mondo che Chagall raffigura è, nel vero senso del termine, un mondo rovesciato se non addirittura sottosopra. «Molti hanno fatto dell’umorismo sui miei dipinti», scrisse l’artista. «Non ho fatto niente per evitare quelle critiche. Al contrario. Sorridevo – tristemente, certo – della meschinità dei miei giudici. Ma avevo, malgrado tutto, dato un senso alla mia vita».
Nietzsche: abbandonarsi alla vita
Nella sua arte del sottosopra, così illogicamente liberata e liberatoria, si colgono echi del pensiero di Friedrich Nietzsche (1844-1900), il grande filosofo tedesco. Per ognuno di noi, il dolore prende forme diverse. Passiamo la nostra vita a pensarci, a parlarne, a studiarlo. Forse però sbagliamo a concentrare tutte le nostre forze nella comprensione e schematizzazione del nostro dolore. È quanto sostiene Nietzsche, per il quale è inutile e completamente sbagliato cercare di comprendere la vita secondo i criteri razionali che la tradizione metafisica e filosofica ci ha tramandato.
Essa, secondo il filosofo, non è un meccanismo, una rigida sequenza di cause ed effetti. L’unico modo per reagire alla dolorosissima presa di coscienza che la vita non ha senso, né tantomeno uno scopo, è abbandonarsi in toto alla vita medesima, con un coraggioso “dire di sì”. È l’accettazione stessa dell’esistenza, non come sopportazione dolorosa ma come accettazione gioiosa. Ed è ciò che, secondo quanto Nietzsche elabora in una prima fase del suo pensiero, avviene all’interno dello spirito umano. Lo Spirito Dionisiaco (la risposta al senso tragico della vita) s’identifica con l’amore per la vita, che è forza creatrice, istinto, sensualità, passione, irrazionalità, e si contrappone allo Spirito Apollineo, che invece vive nella tranquillità di un sogno, in equilibrio e razionalità, reprimendo ogni suo istinto naturale.
Il superuomo
Secondo la tesi nietzscheana più matura, quella della volontà di potenza, solo il superamento dell’umano può produrre quell’accettazione gioiosa di ciò che i deboli cercano di sfuggire.
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Hayez, Manzoni e il Risorgimento
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Francesco Hayez (Venezia, 1791 – Milano, 1882) fu un pittore italiano, esponente di rilievo del Romanticismo. Le sue opere, nate nel contesto del Risorgimento italiano, sono diventate popolarissime e hanno lasciato un segno molto profondo nella storia dell’arte italiana. Pur essendo un romantico, Hayez non rinunciò mai del tutto alla ricerca del bello ideale, aspetto che molti suoi colleghi europei tendenzialmente ignorarono.
L’artista rimase legato alla poetica neoclassica che aveva segnato la sua formazione e così mantenne sempre uno stile impeccabile, un disegno nitido, la resa dei particolari più minuti, soprattutto la fiducia incondizionata nel potere educativo della storia. Scelse, così, di rappresentare soggetti del passato. Il suo Romanticismo è stato infatti definito “storico”. Hayez fu certamente l’artista romantico che più credette nel ruolo educativo della Storia, anche se a differenza dei neoclassici fece riferimento alla storia medievale per spiegare il presente.
Hayez fu anche un celebrato e ricercato ritrattista. Ritrasse noti letterati, compositori e patrioti contemporanei, come il grande scrittore romantico Alessandro Manzoni, il musicista Gioacchino Rossini, il filosofo Antonio Rosmini e il politico Massimo D’Azeglio. Molti di questi ritratti sono conservati nella Pinacoteca milanese di Brera.
I Vespri siciliani
Uno fra i più grandi capolavori di soggetto storico di Hayez è del 1821 ed è intitolato I Vespri siciliani. Di questo quadro Hayez dipinse in tutto ben quattro versioni, l’ultima delle quali è del 1844-46. Quest’opera ha per tema un episodio, avvenuto a Palermo nel 1282, che provocò la rivolta dei siciliani e la cacciata dall’isola dei dominatori angioini. Subito dopo la funzione religiosa del Vespro (la preghiera del tramonto), del Lunedì di Pasqua, un soldato francese importunò una ragazza con il pretesto di perquisirla; il marito, furibondo, riuscì a sottrarre la spada al militare e a ucciderlo.
Quel gesto scatenò la rivolta dei concittadini presenti; i palermitani si abbandonarono a una vera e propria “caccia ai francesi” che si trasformò in una carneficina e dilagò in tutta l’isola. Nell’ottica risorgimentale, la scelta di tale soggetto ha un significato evidente: celebrare un remoto episodio in cui gli italiani erano riusciti a cacciare gli invasori stranieri non poteva che essere l’incoraggiamento a ritrovare lo stesso coraggio e proseguire la lotta di liberazione.
Hayez scelse di rappresentare il momento immediatamente successivo all’omicidio. Tutti i protagonisti sono distribuiti in primo piano: la donna turbata e sostenuta dal fratello, il francese caduto a terra con una mano sulla ferita, il marito con la spada ancora intrisa di sangue, i palermitani accorsi a vedere cos’era accaduto. Le figure hanno atteggiamenti molto teatrali, quasi da melodramma, che denunciano chiaramente la formazione neoclassica dell’autore.
Anche lo stile, d’altro canto, è assai vicino a quello dei pittori neoclassici: il quadro presenta un disegno molto definito, chiaroscuri decisi che rendono le figure statuarie, colori tenui, grande chiarezza della visione d’insieme. L’opera resta comunque totalmente romantica, per il soggetto medievale, per la capacità di trasmettere emozioni e per la suspense drammatica della sua composizione, ricca di sentimenti esibiti e di esortazioni alle virtù civili.
La Meditazione
Agli occhi dei suoi contemporanei, Hayez era un pittore politicamente schierato. La Meditazione, un suo dipinto del 1851, venne subito identificata dai giornali come una allegoria della Patria sofferente a causa della dominazione straniera. In effetti, il titolo originario del quadro sarebbe stato L’Italia nel 1848, ma venne sostituito con quello attuale per non incorrere nella censura austriaca ed evitare possibili ritorsioni.
Il dipinto presenta una giovane donna dai lunghi capelli neri,
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La sede del Bauhaus a Dessau di Gropius
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La prima metà del XX secolo fu caratterizzata dalla nuova tendenza progettuale del Movimento Moderno. Gli architetti che vi aderirono si ribellarono al classicismo accademico, sostenendo le nuove proposizioni di forme elementari; promossero l’uso del cemento armato, del ferro e del vetro; proposero il controllo dell’espansione urbana, attraverso un’ordinata zonizzazione delle funzioni; vollero creare un linguaggio figurativo internazionale, definendo nuovi strumenti teorici e progettuali a sostegno della nuova architettura. Il Movimento Moderno è anche noto come Razionalismo o Funzionalismo.
Gropius
Tra i suoi principali esponenti fu Walter Gropius (1883-1969), architetto, designer e urbanista tedesco, il quale elaborò un metodo progettuale capace di affrontare i temi produttivi e costruttivi della nuova società industriale. Nei suoi progetti architettonici, Gropius compose volumi chiusi e interi, ricorrendo, in pratica, a soli due materiali: il vetro (incorniciato dal metallo) per tamponare i vuoti e l’intonaco bianco per evidenziare i pieni.
Tra i suoi principali esponenti fu Walter Gropius (1883-1969), architetto, designer e urbanista tedesco, il quale elaborò un metodo progettuale capace di affrontare i temi produttivi e costruttivi della nuova società industriale. Nei suoi progetti architettonici, Gropius compose volumi chiusi e interi, ricorrendo, in pratica, a soli due materiali: il vetro (incorniciato dal metallo) per tamponare i vuoti e l’intonaco bianco per evidenziare i pieni.
La sede del Bauhaus di Dessau
Fra il 1925 e l’anno seguente, Gropius progettò a Dessau la seconda sede del Bauhaus, la scuola che era stata fondata nel 1919 per ricomporre il rapporto tra arte, artigianato e industria attraverso la produzione industriale di massa. Per la sua importanza, questo edificio è entrato a far parte del Patrimonio dell’umanità, nel 1996, assieme agli edifici di servizio, ossia gli alloggi del “maestri” e degli studenti.
Si tratta di un complesso architettonico, concepito dal suo autore come una piccola polis: un organismo sociale, prima ancora che urbanistico o architettonico, il quale mostra un’articolazione che rimanda inequivocabilmente alle molteplici e varie attività che doveva accogliere al suo interno. In Europa prevaleva, a quei tempi, il modello architettonico di Oxford e Cambridge, che prevedeva una rigorosa separazione fra studio, lavoro e quotidianità, tra teoria e pratica, tra studenti e professori.
Gropius volle superare questo modello, immaginando per la sua scuola spazi destinati, di fatto, contemporaneamente alla vita scolastica e a quella quotidiana. Si affermò, nel suo progetto, l’idea che una scuola fosse prima di tutto un contesto in cui prevaleva il rapporto personale tra docenti e studenti, un ambito educativo in cui si insegnava un metodo invece di indottrinare i giovani allievi.
La chiusura e i restauri
Nel 1930, il nazista Wilhelm Frick, Ministro degli interni e della pubblica istruzione, prese di mira l’esperienza del Bauhaus, reputandola una scuola di ispirazione comunista e bolscevica. Il ritrovamento nella biblioteca della scuola di Dessau di alcune riviste comuniste, probabilmente messe lì dagli stessi nazionalsocialisti, confermò le accuse e portò alla chiusura forzata dell’istituto, a fine settembre 1932. Mies van der Rohe tentò di riaprire la scuola a Berlino ma la presa di potere nazista portò alla chiusura definitiva nel 1933.
Nel 1945, dopo il pesante bombardamento aereo su Dessau, parte dell’edificio venne distrutta da un incendio e anche la facciata in vetro dell’ala dei laboratori andò in frantumi.  In seguito, le strutture del complesso vennero riutilizzate e parzialmente alterate. Una meticolosa opera di restauro, finalizzato a riportare le architetture al loro aspetto originario, iniziò nel 1965 e proseguì nel 1976 e tra il 1996 e il 2006. Nel 2014,
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