
I movimenti del Sessantotto sono lo scenario, costituiscono l’antefatto della vicenda del travet: ma mentre tutto questo accadeva, come scorreva la mia vita ed io cosa facevo? sembra chiedersi l’impiegato, narratore e protagonista al contempo; e la risposta è un senso di inutilità, nel figurarsi in preda alla monotonia e alla piattezza di ripetitive mansioni: contare i denti ai francobolli. Il dissidio e i pensieri interiori finiscono così per ancorarsi alla realtà, dalla quale l’impiegato riceve quel nutrimento che va ad alimentare il disagio che lo pervade intimamente, tanto da fargli perdere le sicurezze e la serenità della sua routine quotidiana, derivanti dalla sua raggiunta posizione medio-borghese.
In questo primo momento reale, gli interrogativi si affacciano copiosi, si affastellano nella sua mente, tanto da accrescere il suo intimo conflitto esistenziale. Similmente a quelli di Introduzione, ritornano i tre scoppi e ritorna anche il raffronto io-loro, con una disamina più concreta e disillusa della realtà in cui egli vive. Citando Brecht, “Tutti vedono la violenza del fiume in piena, nessuno vede la violenza degli argini che lo contengono”. Così, per una lenta e inesorabile metamorfosi, l’impiegato comincia a conquistare un altro orizzonte, un altro punto di vista e la prospettiva sulla sua vita routinaria inizia a cambiare.
Aderendo all’ottica antiautoritaria del movimento, con la quale comincia a trovare punti di contatto, prende coscienza dell’immobilismo in cui è piombato, a caro prezzo, in virtù di scelte imposte dalla cultura borghese, dalla politica, dalle caste e dal potere, in generale. È una scena reale, prima che tutto diventi sogno, che immortala una presa di coscienza individuale, laddove il movimento fu un fatto collettivo.
A differenza di quella normalità asfittica, scandita da frasi di circostanza, “… secondo il prontuario delle frasi convenzionali...” e da un buonsenso immotivato, a volte anche cinico, che lo stanno spingendo poco alla volta in una vita da incubo, inizia ad avvertire una vicinanza di vedute con quelle della corrente studentesca: d’altra parte, la differenza d’età non è poi così tanta, “… i suoi trentanni erano pochi più dei loro…”, ed è una delle caratteristiche degli scontri. Il conflitto, infatti, era anche generazionale: al suo interno, nell’eterogeneità di quegli scontri, vi erano anche quelli originati dal divario generazionale e la lotta alla gerontocrazia ne era una sottospecie.
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L’impiegato desidera liberare la fiducia in se stesso e nelle proprie tentazioni, desidera scordarsi la direzione verso casa e quel buonsenso immotivato che la pervade. In proposito, De André dirà: “Qualcuno, mi pare Maiakowsky, ha detto: “Dio ci salvi dal maledetto buonsenso”: se tutti fossero dotati di buonsenso non esisterebbero gli artisti e probabilmente neppure i bambini”. E “L’immaginazione al potere”, infatti, era proprio uno dei tanti slogan del periodo. La fiducia in se stesso e nelle proprie tentazioni comincia a farsi largo portandolo a credere, in questa congerie di pensieri, di poter riuscire nel suo intento con un gesto solitario, individualista. Sulla rivolta romantica e disperata dei movimenti, l’impiegato pensa di poter incardinare anche la sua di rivoluzione, sulla base di una nuova organizzazione, non già collettiva ma personale, individuale. Tra un routinario “adesso è tardi adesso torno a lavoro” e un più rassicurante “ma non importa adesso torno al lavoro” si insinua, si fa strada il desiderio di allontanare gli intrusi dalle sue emozioni. E il sogno e l’utopia, per chi non è più disposto a sopportare sono, nel reale conflitto delle sue riflessioni, solo all’inizio.
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