
Tratto da un brano di Limiti cittadini (The Colossus of New York, 2003) – The Colossus of New York è una raccolta di saggi brevi e poetici in prosa che compongono un ritratto lirico e frammentato della città di New York. Non è un romanzo né un reportage, ma una meditazione corale sulla vita urbana, la memoria e l’identità metropolitana.
Colson Whitehead esplora la città non come un luogo fisico, ma come un paesaggio emotivo e mentale: la New York di chi ci vive, ci sogna, ci torna o la perde. Ogni capitolo – dedicato a temi come “City Limits”, “Subway”, “Rain”, “Downtown”, “Rush Hour”, “Morning” o “Brooklyn Bridge” – cattura momenti di quotidianità che diventano universali.
La voce narrativa oscilla verso la vera protagonista che è la coscienza collettiva dei newyorkesi. Whitehead riflette su come ogni persona abiti una “propria” città sovrapposta a quella reale, costruita da ricordi, strade percorse, luoghi scomparsi e cambiamenti incessanti.
Con un linguaggio ritmico come il jazz, il libro parla di memoria, perdita e rinascita. È al tempo stesso un atto d’amore e un’elegia: per la città che cambia, per i luoghi che svaniscono e per la sensazione eterna di appartenenza e spaesamento che New York suscita.
Questa mia lettura vuole esserne un tributo.