
A Duménega è forse la canzone dell'intero album scritto in genovese, che meglio racchiude i temi più cari a De André: lo sguardo non giudicante nei confronti delle prostitute, degli ultimi associato al finto moralismo borghese e perbenista, altro aspetto dell'ipocrisia del potere. A Dumenega è, in un certo senso, la rivincita delle prostitute.
Dice De André presentando la canzone durante il concerto di Guidonia del 1991: “Nella mia splendida, amatissima, per quanto perfida città, tre o quattro secoli fa le prostitute erano relegate in un quartiere che si chiamava allora, come oggi, Rebecca. Veniva loro concesso di uscire da questa specie di recinto soltanto nei giorni di festa. Potete immaginare il popolaccio dire loro cose mostruose. […] ”
Nella Genova d’un tempo, infatti, si racconta di un’usanza secondo la quale le meretrici venivano relegate in un quartiere, Rebecca, per l'appunto, e che, attraverso il guadagno ottenuto, il comune riuscisse a pagare tutti i lavori portuali di un anno e a finanziare la costruzione di un nuovo molo.
E’ qui che è radicata l’ipocrisia che fa da filo conduttore lungo tutto il brano. La canzone è una fotografia del giorno di festa: la domenica.
Come esposto da De André, l’unico diritto inalienabile di queste donne, era infatti il rito della passeggiata domenicale, una sorta di processione laica in cui i membri della “nobile” borghesia genovese deridono, insultano, scherniscono ma soprattutto non si curano della coscienza sporca e dell’ipocrisia nascosta dietro quegli aggettivi urlati con l’unico scopo di denigrare.
Le stesse persone rappresentano infatti gli assidui frequentatori che durante i restanti giorni della settimana vanno “lì, al primo piano, a pregarle di maritare”.
Ce lo ricorda De André, ce l’aveva cantato già ne La Città Vecchia sottolineando così la differenza tra idea e azione:
"Quella che di giorno chiami con disprezzo specie di troia / Quella che di notte stabilisce il prezzo alla tua gioia.”
Non è la prima volta che nella produzione discografica di Fabrizio si intreccia l’amore sacro all’amor profano, quasi come a volerne cancellare il confine, tracciato poi chissà da chi.
Il brano si chiude con l’ennesimo insulto urlato dal sacrestano, il portatore della croce nelle cerimonie, il bigotto al quale la prostituta prontamente risponde: “Brutto stronzo d’un portatore di Cristo, non credere di essere l’unico che se n’è accorto, che in mezzo a quelle creature che si guadagnano il pane nudo c’è anche tua moglie!”
Si deve sottolineare, musicalmente, la presenza della chitarra andaulsa suonata da Franco Mussida, già chitarrista della Premiata Forneria Marconi, che dona la degna conclusione al brano in uno sfumato “quasi senza fine”.
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Curato da Lucia Lamboglia e con la voce di Simona Atzori.
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