
> con Massimiliano Piccolo < Quarto e ultimo incontro del ciclo "Lotta di classe e movimento socialista e comunista in Italia".
Appare subito evidente come le principali conquiste del ’68 che si sono mantenute fino ai giorni nostri e che sono sedimentate nella coscienza collettiva del Paese siano quelle legate a obiettivi che non hanno intaccato gli interessi della borghesia capitalista – i cosiddetti diritti civili – e che anzi hanno permesso alla natura continuamente rivoluzionaria del MPC di estendere i margini del proprio dominio.
Quindi si può – e si deve – essere conservatori in senso relativo, relativamente, cioè, alla difesa di una conquista ma pur sempre all’interno di una generale prospettiva rivoluzionaria.
Ma come si arrivò al Sessantotto?
Il mutamento sociale più notevole e di più vasta portata, nella seconda metà del Novecento, riguardò il declino della classe contadina.
Mentre, un po’ in tutto il mondo capitalista avanzato, le vecchie industrie dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento decaddero e le nuove industrie erano molto diverse. La successiva locuzione post-fordismo (che riprendeva l’articolo di Gramsci sul fordismo) rappresenta bene questa situazione: il grande stabilimento costruito attorno alla catena di montaggio, la regione o la città dominata da una sola industria (come a Detroit o, in Italia, a Torino) con la classe operaia unita e unificata anche dallo stesso luogo di lavoro o dagli stessi quartieri residenziali, stava mutando la propria pelle.
In Italia, invece, gli anni Cinquanta scontavano ancora la storica arretratezza nell’industrializzazione capitalistica, quindi anche nelle forme dell’organizzazione del lavoro ed erano stati, così, caratterizzati da una figura operaia ancora con forti connotazioni ideologiche, con una memoria storica saldamente legata alla Resistenza e ai valori della Ricostruzione, cosciente di una missione politica da compiere per trasformare la società in una direzione democratica e socialista.
Ma il nuovo soggetto operaio che si stava radicando nelle grandi città italiane era giovane e figlio dell’emigrazione, portatore di esigenze concrete diverse da quelle tradizionali – anche nelle forme della protesta – e che divenne maggioritario con l’introduzione massiccia della catena di montaggio.
Un altro grande mutamento riguardò il ruolo sempre più consistente ricoperto dalle donne. Negli anni ’60, dovunque nel mondo si tenessero elezioni, le donne avevano ottenuto il diritto di voto, con l’eccezione di alcuni stati islamici e della Svizzera. Ma, dagli anni ’60 in poi, si assiste a un’impressionante rinascita del femminismo e con una precisa prospettiva di classe in merito ai problemi femminili.
Negli stessi anni, al declino della classe contadina e agli altri mutamenti sopra descritti si accompagnava – e a un livello ancora più generale – l’aumento delle occupazioni che richiedevano un’istruzione a livello medio e superiore. L’alfabetizzazione di base divenne, così, l’aspirazione di tutti i governi.
Un’ultima considerazione va fatta sulla natura e la storia del potere politico, in quegli stessi anni, in Italia. Dal Governo Tambroni a Piazza dello Statuto.
Le prime analisi sul ’68 furono assai povere ed elementari: s’insisteva sui disagi dei ragazzi per il sovraffollamento delle strutture, il permanere dei doppi turni, l’inadeguatezza dei servizi e l’annoso problema dell’edilizia scolastica. Nessuno sembrava cogliere, cioè, il dato strutturale e la sua trasformazione all’interno dell’incapacità – consustanziale al MPC – di assorbire le crisi.
E il PCI, allora, il più grande partito comunista d’occidente?